Metodica di insegnamento ed esigenze dell’educazione 1 – Rudolf Steiner

 

PRIMA CONFERENZA
L’arte dell’educazione sulla base di una vera conoscenza dell’uomo
Stoccarda, 8 aprile 1924

Come tema di questa riunione pedagogica è stato scelto di discutere sulla domanda: quale posizione hanno educazione e istruzione nella vita individuale dell’uomo e nella vita culturale del presente? Non si dovrebbe venir contraddetti da coloro che possono considerare senza pregiudizi la vita culturale odierna nei suoi diversi aspetti, se si dice che proprio questo tema oggi – intendo l’oggi storico che comprende i decenni presenti – è tale che tocca nel senso più profondo gli enigmi che in questo momento stanno nell’anima e nel cuore di un’ampia cerchia di uomini. Abbiamo pur visto svilupparsi nella civiltà più recente una particolare posizione dell’uomo verso se stesso. Da più di un secolo si è potuto vedere entro questa civiltà il grandioso sviluppo della scienza e tutto ciò che essa ha portato come conseguenza nella civiltà umana; e in sostanza tutta la vita moderna è permeata dalle cognizioni che la prodigiosa, grandiosa scienza dei tempi più recenti ha portato alla luce. Ma per quanto lontano si guardi nell’ambito della conoscenza della natura, se consideriamo in che modo noi oggi osserviamo specialmente il regno minerale, e da questo ci facciamo delle rappresentazioni sugli altri regni della natura, ci dobbiamo confessare: oggi l’uomo non ha più, di fronte all’osservazione di se stesso, la posizione intima e vicina che aveva in precedenti epoche di civiltà. Perché tutto ciò che la penetrante conoscenza della natura ha portato all’umanità, non è affatto da applicare in modo immediato all’essenza più profonda dell’uomo. Possiamo chiedere: come sono le leggi, com’è il corso del mondo extraumano? Ma tutte le risposte a tale domanda non giungono affatto all’essenza di quanto è racchiuso nei limiti della pelle umana. Vi si accostano così poco, che oggi non si suppone neppure lontanamente quali effettivi mutamenti subiscono i processi naturali esteriori nella respirazione, nella circolazione del sangue, nella nutrizione o in altre funzioni dell’uomo vivente.

Di conseguenza si è arrivati anche nel campo dell’animico a non guardare più all’animico stesso, ma in un certo senso a considerarlo attraverso il modo con cui esso si manifesta nella natura corporea dell’uomo. Si è arrivati a far esperimenti sull’uomo con procedimenti esteriori. Ora non si tratta di opporsi ad una psicologia sperimentale o ad una pedagogia sperimentale. Quello che si può raggiungere in tale direzione deve assolutamente venir riconosciuto, ma più come sintomo, perché il suo contenuto, questo sperimentare sull’uomo, deve venir considerato tutto al più come un accenno. Nei tempi in cui dall’intima partecipazione con lo spirituale-animico dell’altro uomo si riceveva un’impressione intuitiva delle esperienze animiche interiori, era per così dire naturale che si interpretassero le manifestazioni esteriori corporee secondo quanto si sapeva dell’interiorità animico-spirituale. Oggi si percorre la via opposta. Si fanno esperimenti su sintomi e processi esteriori – tentativi naturalmente meritevoli come è meritevole tutto quanto oggi fa la scienza – ma con ciò si dimostra semplicemente che ci si è a poco a poco abituati, nel corso della nuova concezione della vita, a considerare come positivo, nell’osservazione, solo quello che i sensi possono percepire, quello che l’intelletto può conquistare mediante l’osservazione sensoria. Con ciò, però, si è proprio arrivati a non poter più osservare giustamente l’uomo interiore e ad accontentarsi in vari modi dell’osservazione dell’involucro esterno. Ci si allontana dall’uomo. Questi metodi, che in modo così grandioso hanno fatto luce sulla vita della natura esterna, sul suo essere ed operare, ma che vengono usati anche nei riguardi dell’uomo, ci tolgono proprio l’immediato, elementare agire da anima ad anima.

Così è veramente accaduto che la nuova civiltà, la quale peraltro agisce in modo così meraviglioso e ci ha tanto avvicinato certi fenomeni naturali, ci ha invece propriamente allontanati dall’uomo. È facile comprendere che sotto questo aspetto deve soffrire al massimo quel ramo della vita culturale che, nell’educazione e nell’istruzione, riguarda la formazione, lo sviluppo dell’uomo in divenire, del bambino. Perché l’uomo può educare e istruire soltanto quando comprende quello che deve formare, che deve plasmare, come il pittore può dipingere soltanto quando conosce la natura, l’essenza del colore e come lo scultore può lavorare soltanto quando conosce la natura della sostanza che usa, e via dicendo. Quanto è valido per le altre arti che lavorano con materie esteriori, perché non deve essere valido per quell’arte che lavora alla materia più nobile che mai possa esser posta di fronte all’uomo, che lavora all’essere umano, al suo divenire e al suo sviluppo? Così, tutto sommato, ci viene già indicato che ogni educazione, ogni istruzione deve sgorgare da una vera conoscenza dell’essere umano. Noi cerchiamo ora di creare nella Scuola Waldorf 2 un’arte dell’educazione che posi in tutto e per tutto su di una vera conoscenza dell’essere umano; questo nostro convegno pedagogico è in rapporto con i metodi di educazione e istruzione della Scuola Waldorf.

Riguardo alla conoscenza dell’uomo si può dire: oh, come siamo andati avanti nella conoscenza dell’uomo in questi ultimi tempi! Ma la risposta deve essere: certo, qualcosa di straordinario è stato raggiunto rispetto alla conoscenza dell’uomo corporeo; ma l’uomo è articolato in sé secondo corpo, anima e spirito. E la concezione della vita che sta alla base del metodo, della essenza educativa della Scuola Waldorf, la scienza dello spirito antroposofica, è assolutamente costruita sulla conoscenza parallela del corpo, dell’anima e dello spirito dell’uomo, e vuole evitare ogni unilateralità mediante tale equilibrata conoscenza delle tre parti della natura umana.

Nelle prossime conferenze, cui oggi vorrei più che altro premettere una introduzione, avrò molte cose da dire su questa conoscenza dell’uomo. Prima però vorrei notare che una vera, genuina conoscenza dell’uomo non può limitarsi a comprendere il singolo uomo secondo corpo, anima e spirito come egli ci si presenta, ma più di tutto deve considerare con l’occhio dell’anima ciò che avviene tra gli uomini nella vita terrena. Mentre gli uomini si incontrano fra di loro non può svilupparsi (sarebbe assurdo) una conoscenza dell’uomo portata a piena coscienza. Noi uomini non potremmo mai muoverci nella vita sociale, se ci guardassimo in modo da domandare: che cosa si trova, che cosa c’è nell’altro? Ma nelle sensazioni inconsce, nei sentimenti, e specialmente negli impulsi che stanno a base della volontà, l’uomo porta una inconsapevole conoscenza dell’altro uomo che incontra nella vita. Questa conoscenza dell’uomo, lo vedremo, ha certamente sofferto in vari modi nel tempo più recente, e i nostri malanni sociali dipendono proprio dal fatto che essa ha sofferto. Ma essa si è più o meno ritirata in regioni ancora più inconsce di quelle in cui stava prima. Però esiste, altrimenti noi ci passeremmo accanto, come uomini, completamente senza comprenderci. Invece non è così. Quando un uomo incontra un altro uomo, anche se non se ne rende ben conto, sorgono simpatie e antipatie, vi sono delle impressioni che ci dicono che l’altro è adatto a venirci vicino, oppure non è adatto, e noi vogliamo allora tenerci lontani da lui. Si possono avere anche altre impressioni. Noi possiamo dirci alla prima impressione che questo è intelligente, quello è meno dotato. Così potrei citare molti altri esempi, tutti dimostrerebbero che centinaia e centinaia di impressioni vogliono salire dalle profondità della nostra anima alla coscienza, ma vengono respinte per la disinvoltura della vita abituale; noi stiamo però di fronte al nostro prossimo con esse in una disposizione d’anima, e regoliamo la nostra vita nei suoi confronti secondo queste impressioni. Anche quella che chiamiamo compassione e che in fondo è uno dei più importanti impulsi della morale umana, anch’essa appartiene all’inconsapevole conoscenza dell’uomo, di cui vi sto parlando.

Ora, come noi nella vita stiamo da adulti di fronte ad adulti, e usiamo proprio la conoscenza dell’uomo in maniera tanto inconsapevole da non notarlo, ma agendo secondo tale conoscenza, così, in modo molto più consapevole, come anima umana di maestro, dobbiamo stare di fronte all’anima umana del bambino per formarlo, ma anche per sperimentare nella nostra anima di maestro ciò che deve venir sperimentato per avere quel giusto accordo, quella giusta arte pedagogica, quel giusto sentire in comunione con l’anima del bambino, che sono necessari per svolgere educazione e insegnamento nel modo adeguato. Ci appare immediatamente che la cosa più importante si svolge, nell’educazione e nell’istruzione, tra l’anima del maestro e quella del bambino. E in primo luogo lasciatemi prendere le mosse da una conoscenza dell’uomo che non ha contorni rigidi perché non si riferisce al singolo uomo, ma si libra, in un certo senso oscilla qua e là fra quello che durante l’educazione e l’istruzione avviene nell’anima del maestro e quello che avviene nell’anima del bambino. In certe circostanze è difficile afferrare quanto, in modo veramente imponderabile, passa dall’anima del maestro a quella del bambino e viceversa. Perché quello che così fluisce, in fin dei conti, si trasforma ogni momento, mentre noi educhiamo o insegniamo. Bisogna crearsi lo sguardo per tutto ciò, uno sguardo animico che afferra quanto di fine, di leggero scorre da anima ad anima. Forse soltanto quando si è in condizione di afferrare ciò che giuoca così intimamente e spiritualmente tra gli uomini, si può comprendere l’uomo in se stesso.

Perciò oggi, come introduzione, vogliamo vedere alcuni esempi di come tali correnti si formino in determinati casi. Qui si deve però prendere in considerazione una cosa: la conoscenza dell’uomo, specialmente nei confronti dell’uomo in divenire, del bambino, viene esercitata in modo che noi abbiamo il bambino in un certo momento della sua vita, ci occupiamo di lui, cerchiamo le sue forze di sviluppo, ci chiediamo come tali forze operino in una data età e così via, ci domandiamo che cosa dobbiamo fare per andare incontro nel modo giusto, in una data età, a queste forze di sviluppo. Ma la conoscenza dell’uomo, come viene intesa qui, non riguarda soltanto questi singoli momenti di esperienza; tale conoscenza dell’uomo riguarda tutta la vita terrena dell’uomo. Questo non è comodo come lo è osservare un limitato periodo della vita umana. Per l’educatore e per l’insegnante però è necessario prendere in considerazione l’intera vita terrena dell’uomo, perché ciò che noi seminiamo nell’ottavo o nono anno di vita del bambino ha i suoi effetti nel quarantacinquesimo, nel cinquantesimo anno di vita dell’adulto; ne riparleremo più tardi. E quanto io, come maestro, faccio nei riguardi del bambino di età scolare, entra profondamente nella natura fisica, psichica e spirituale dell’uomo. Ciò che per così dire trama e tesse per decenni sotto la superficie, torna alla luce in modo singolare dopo decenni, talora alla fine della vita dell’uomo, mentre è stato messo in lui, come un seme, all’inizio della vita. Si può agire sopra l’età infantile nel modo giusto solo se si considera non solamente tale età infantile, ma l’intera vita dell’uomo, con vera conoscenza dell’uomo stesso.

Volendo ora dimostrare con qualche esempio – oggi solo di sfuggita, poi se ne parlerà con più esattezza – come l’anima del maestro possa agire intimamente su quella del bambino, io tengo presente tale conoscenza dell’uomo. Noi impariamo a fare quello che dobbiamo nell’istruzione, nell’istruzione intellettuale, nella direzione degli impulsi della volontà, solo quando sappiamo che cosa opera dunque tra maestro e bambino, solo per il fatto che maestro e bambino si trovano di fronte, ognuno con una particolare natura, con un particolare temperamento, con un particolare carattere, un particolare grado di sviluppo, una particolarissima costituzione fisica ed animica. Prima di incominciare in qualche modo a istruire, a educare, siamo di fronte, noi e il bambino. C’è già un operare tra i due. Come è il maestro di fronte al bambino? Questa è la prima domanda importante.

Per non andare brancolando in astrazioni generali, ma per considerare qualcosa di preciso, partiamo da una caratterizzazione particolare della natura umana, dal temperamento. Non consideriamo per primo il temperamento del bambino, dal momento che non possiamo sceglierlo – dobbiamo educare ogni uomo, di qualsiasi temperamento; e del temperamento del bambino parleremo più tardi – ma anzitutto consideriamo una volta, per circoscrivere il nostro compito, il temperamento del maestro. Il maestro entra in classe con un temperamento tutto particolare, collerico, flemmatico, sanguinico o malinconico e si pone di fronte al bambino. Alla domanda: che cosa dobbiamo fare come educatori per controllarci, per educare noi stessi specie in rapporto col nostro temperamento? si può rispondere soltanto se si considera la questione fondamentale: come agisce il temperamento del maestro sul bambino, per il semplice fatto di essere lì?

Partiamo dal temperamento collerico. Il temperamento collerico del maestro si può esplicare in modo che il maestro lasci libero corso al suo temperamento, cioè vi si abbandoni. Come egli debba dominarsi lo vedremo poi, ma anzitutto prendiamo atto che questo temperamento è semplicemente lì. Esso si palesa in manifestazioni impetuose e violente. Forse spinge il maestro, mentre educa, mentre insegna, ad agire, a trattare il bambino in un modo che è dovuto proprio al suo temperamento, e di cui più tardi si pente. Forse egli, in vicinanza del bambino, fa qualcosa che mette paura a quest’ultimo, e noi vedremo come è delicata l’anima del bambino; lo spavento può essere soltanto passeggero, e tuttavia può propagarsi fin entro l’organizzazione fisica del bambino. Un maestro collerico può anche essere la causa per cui il bambino si avvicini al maestro con continui sentimenti di paura, oppure, del tutto inconsciamente, nel subconscio, si senta oppresso. Insomma c’è da considerare un’azione tutta particolare, di natura sottile, intima, delicata, del temperamento collerico sul bambino.

Prendiamo un bambino ancora in tenera età, in un’età che preceda l’obbligo della scuola elementare. Questo bambino è assolutamente un essere unitario. Le tre parti costitutive della natura umana, corpo, anima e spirito, si differenziano tra loro soltanto più tardi. Fra la nascita e la seconda dentizione, che indica un punto molto importante della vita nello sviluppo dell’uomo, c’è un periodo della vita del bambino in cui, per così dire, – noi di solito non lo osserviamo abbastanza – il bambino è quasi tutto organo di senso. Osserviamo un organo di senso, e precisamente l’occhio. Impressioni esteriori, impressioni di colore si accostano all’occhio. L’occhio è intimamente organizzato in modo da assorbire le impressioni di colore. Senza che l’uomo vi eserciti un influsso, subito ciò che agisce come stimolo esterno viene tramutato in qualcosa di volitivo che soltanto dall’anima, come si dice, può essere sperimentato. Ma animica in questo modo è tutta la vita del bambino, prima della seconda dentizione, nel campo delle percezioni dei sensi. Ogni esperienza interiore assomiglia ad una percezione animica. Specialmente le impressioni che gli vengono dalle persone che lo circondano – se ci moviamo lentamente vicino al bambino e con ciò riveliamo l’indolenza del nostro elemento animico-spirituale, oppure se ci moviamo impetuosamente e riveliamo così l’irruenza del nostro elemento animico-spirituale, – tutto questo viene accolto dal bambino quasi con la medesima intensità con cui, in altro modo, vengono accolte da un organo di senso le impressioni che agiscono su questo stesso organo di senso. Il bambino nel suo insieme è un organo di senso. Si può dire: quando siamo adulti abbiamo il gusto nella bocca, nel palato, nella lingua. Il bambino sente il gusto molto più profondamente nel suo organismo, l’organo del gusto si estende, per così dire, in una grande parte del corpo. Così gli altri sensi. Gli influssi della luce nel bambino si legano profondamente con i ritmi della respirazione, penetrano nella circolazione del sangue. Quanto nell’adulto vive isolato nell’occhio, il bambino lo sperimenta attraverso tutto il corpo, e, senza che intervenga il ragionamento, vengono a galla gli impulsi della volontà come fenomeno riflesso. Parlo anzitutto di ciò a modo di introduzione, per giungere al tema. Così tutto il corpo del bambino agisce come organo di senso, come riflesso di fronte a quello che accade nell’ambiente che lo circonda.

Per questo, però, spirito, anima e corpo non sono ancora articolati, non sono ancora differenziati nel bambino, sono una unità, un continuo tessere di uno nell’altro. Lo spirituale, l’animico opera nel corpo e influisce direttamente sui processi di circolazione e di nutrizione. Oh, come l’anima del bambino, nelle sue sensazioni, è legata all’intero sistema del ricambio, come operano insieme! Soltanto più tardi, con la seconda dentizione, l’anima si differenzia maggiormente dal ricambio. Nel bambino ogni emozione dell’anima passa nella circolazione, nel respiro, nella digestione. Corpo, anima e spirito sono ancora un’unità. Perciò ogni stimolo che viene esercitato dall’ambiente si propaga fino nel fisico del bambino. Ecco dunque nell’ambiente del bambino un maestro collerico che lascia libero corso al suo temperamento collerico; in principio è semplicemente lì, vicino al bambino, e non si controlla; poi gli scoppi del temperamento collerico (cioè quanto vien fatto sotto l’influsso del temperamento del maestro, se questi non esercita quell’autoeducazione di cui parleremo più tardi) scavalcano l’anima del bambino, proseguendo fin dentro il corporeo. Qui sta la particolarità, che tutto questo scende nelle profondità dell’essere; e tutto ciò che passa nel corpo dell’uomo in divenire, più tardi ricompare. Come un seme, che viene gettato nella terra in autunno, e in primavera riappare nella pianta, così quanto viene seminato nel bambino di otto, nove anni, riappare nel quarantacinquesimo, cinquantesimo anno di vita, e noi vediamo le conseguenze del temperamento collerico del maestro che perde il controllo di sé, in malattie del ricambio, non solo dell’adulto, ma anche del vecchio. Se esaminiamo bene perché questo o quell’uomo, nel suo quarantesimo, cinquantesimo anno, ci si presenta come un reumatico, come uno che soffre di tutte le possibili malattie del ricambio, di cattiva digestione, se si esamina perché quest’uomo è quello che è, perché ha l’artrite, si arriva a questa risposta: molto va ascritto al temperamento collerico senza freno del maestro che stava davanti al bambino nell’età infantile.

Se per avere principi pedagogici, impulsi pedagogici, si considera così l’intera vita umana, e non, come è più comodo, solo l’età infantile, allora ci diventerà ben chiaro quale centrale significato, in tutta la vita dell’uomo, abbiano proprio l’educazione e l’insegnamento, e come, sovente, felicità e infelicità nello spirituale, nell’animico e nel corporeo dipendano dall’educazione e dall’insegnamento. Quando si vede come il medico deve correggere, senza che lo sappia, nell’uomo divenuto vecchio, gli errori dell’educazione, e sovente non può più farlo perché essi sono penetrati troppo a fondo nell’essere umano, allorché si vede che quanto giunge animicamente al bambino si trasforma in effetti fisici, allorché si osserva questo reciproco agire tra fisico e psichico, allora si giunge alla giusta attenzione, al giusto apprezzamento per ciò che deve essere veramente la metodica dell’insegnamento, per quelle che devono essere veramente le esigenze dell’educazione, semplicemente secondo l’essenza stessa della natura umana.

Osserviamo ora un maestro flemmatico che si abbandona e non controlla il suo temperamento mediante autoconoscenza e autoeducazione. Si potrebbe dire che quando un maestro flemmatico si accosta al bambino, non accade abbastanza per l’intima attività del bambino. Gli impulsi interiori vogliono venire alla superficie, si esplicano, il bambino vuole manifestarsi. Il maestro è un flemmatico, è indifferente, non raccoglie quanto fluisce dal bambino. Ciò che vuole esprimersi dal bambino non incontra impressioni e influssi esterni. Se posso usare un paragone fisico, direi che è come dover respirare un’aria rarefatta. L’anima del bambino prova una difficoltà animica di respiro quando il maestro è flemmatico. Quando poi nella vita indaghiamo perché certi uomini soffrono di nervosismo, di nevrastenia, o di malattie simili e, osservando il corso della loro esistenza, torniamo al tempo dell’infanzia, troviamo ancora che alla base di tali tendenze alla malattia sta la flemma di un maestro che non si è autoeducato, e che avrebbe dovuto fare qualcosa d’importante per il bambino. Si possono così spiegare interi fenomeni sociali di natura morbosa. Perché il nervosismo, la nevrastenia si sono così spaventosamente diffusi nel tempo più recente? Voi direte: allora si potrebbe credere che tutto il corpo insegnante fosse costituito da flemmatici, nel tempo in cui vennero educati gli uomini che oggi sono nervosi! – Io però vi dico che era costituito da flemmatici, non nel senso comune della parola, ma in un senso molto più vero. Perché a un certo momento del secolo decimonono è spuntata la concezione materialistica del mondo. Tale concezione ha interessi che allontanano dall’uomo, che sviluppano nell’educatore un’enorme indifferenza per le intime emozioni dell’anima dell’educando. Chi poteva osservare senza pregiudizi questi fenomeni culturali del tempo più recente, poteva trovare un maestro che, pur essendo un flemmatico, e avendo forse il principio astratto che i suoi scolari non dovevano rovesciare per stizza i calamai, diceva: «Non si deve fare una cosa simile, non si deve rovesciare per ira il calamaio. Ragazzo, ora ti butto il calamaio in testa!». Non si deve dunque pensare subito che ogni collera di quel genere, nell’epoca di cui parlo, fosse proibita, o che non si conoscessero dei sanguinici e dei malinconici; in rapporto al loro compito educativo erano nondimeno dei flemmatici. Con la concezione materialistica del mondo non si riusciva ad accostarsi all’uomo, e tanto meno all’uomo in divenire e così si poteva essere flemmatici, mentre poi nella vita si era collerici o malinconici. In una certa epoca dello sviluppo materialistico è subentrata una flemma in tutta l’educazione. E da quella flemma si è sviluppato in molti uomini quanto nella nostra vita culturale è subentrato come nervosismo, come nevrastenia, come disorganizzazione totale del sistema nervoso. Dovremo più tardi parlarne in particolare. Ma così, per il semplice fatto che il maestro flemmatico sta vicino al bambino, vediamo poi venire in luce tale temperamento flemmatico nelle disfunzioni del sistema nervoso.

Quando il maestro sì abbandona al temperamento malinconico, quando egli, con la sua malinconia, si occupa troppo di se stesso, così che, si potrebbe dire, il filo dell’animico-spirituale del bambino minaccia continuamente di spezzarsi e la corrente della vita dei sentimenti si raffredda, allora il maestro malinconico agisce sul bambino in modo tale che il bambino stesso nasconde in sé i moti dell’anima, e invece di sfogarli verso l’esterno lì seppellisce dentro di sé. Perciò l’abbandonarsi del maestro al proprio temperamento malinconico fa sì che la respirazione e la circolazione del sangue diventino irregolari per l’età futura del bambino che sta di fronte a tale maestro malinconico. Colui dunque che, come maestro, non tiene conto per la pedagogia soltanto del periodo dell’infanzia, e come medico non osserva soltanto l’età che un uomo ha mentre soffre di una certa malattia, ma può invece osservare in concatenazione l’intera vita umana, dovrà cercare l’origine di certe malattie di cuore che si manifestano nel quarantacinquesimo, cinquantesimo anno di vita, in tutta la disposizione che si è formata sotto l’azione dell’incontrollato temperamento malinconico del maestro nell’educazione, nell’istruzione. Vediamo quindi che l’osservazione dell’imponderabile nell’animico­spirituale che giuoca tra l’anima del bambino e quella del maestro può unicamente portare alle labbra la seguente domanda: in che modo il maestro deve esercitare l’autoeducazione, per esempio in rapporto ai temperamenti? Noi sentiamo già che è impossibile che il maestro, l’educatore dica semplicemente: “il temperamento è congenito, io resto così”. In primo luogo non è vero, in secondo, se fosse vero, il genere umano sarebbe da molto tempo estinto per gli errori dell’educazione.

Osserviamo anche il sanguinico che, come maestro, si abbandona al suo temperamento sanguigno. Egli è sensibile a tutte le possibili impressioni. Se appena un bambino fa uno scarabocchio egli si volge a lui; non diventa violento, ma gli rivolge lo sguardo. Se un qualunque scolaro sussurra qualcosa nell’orecchio del vicino, egli volge lo sguardo a lui. È un sanguinico, le sensazioni lo raggiungono rapidamente, ma non diventano impressioni profonde. Fa uscire dal banco una scolara, le domanda brevemente qualcosa, non se ne interessa più, la rimanda subito al suo posto. Il maestro è precisamente un sanguinico. Se si usano di nuovo quei metodi che osservano tutto il corso della vita, presso alcuni uomini che soffrono di mancanza di vitalità, mancanza di gioia di vivere – è una disposizione morbosa di parecchie persone – dovremo riportare questa mancanza alla sua origine, all’azione del temperamento sanguinico del maestro che non ha saputo frenarsi. Il temperamento sanguinico del maestro che non si autoeduca ha per effetto una repressione della vitalità, una repressione della gioia di vivere, della forte volontà che vuole scaturire dall’individualità.

Se si considerano le connessioni che ci vengono da una vera scienza dello spirito, basata su di una vera conoscenza dell’uomo, allora si vedrà come deve essere ampia, nell’osservazione della natura umana e dell’individualità umana, una vera arte dell’educazione, un vero insegnamento, e come si mostra meschino, al confronto, quel che spesso vede soltanto quanto è più vicino, quanto si può osservare con comodità. Così non va, e dalla nostra civiltà attuale, che ha già provocato sufficienti danni nel campo dell’esistenza umana, nasce l’esigenza di avere una risposta alla domanda seguente: come si può giungere da singole osservazioni che si fanno con esperimenti, con statistiche o con altre belle cose simili, come si può giungere da queste singole comode osservazioni, che oggi formano quasi esclusivamente la base della pedagogia e della didattica, a una pedagogia e a una didattica che osservino ugualmente l’intera vita umana e l’eterno nell’uomo che solo come un barlume in essa traluce? E in connessione con tali domande si dischiude anche qualcosa di più profondo.

Io ho cercato di accennare, a mo’ di introduzione, a quanto avviene tra maestro e scolaro, tra educatore e bambino semplicemente per il fatto che entrambi sono lì, quando non viene ancora preso in considerazione qualcosa che facciamo coscientemente, ma per il solo fatto che noi siamo lì. Questo si manifesta proprio nei vari temperamenti.

Ora si dirà: “bisogna anche incominciare ad educare”. Quanto a ciò si è poi dell’idea che chi abbia imparato quanto si deve insegnare, potrà poi insegnare qualcosa ad un altro. Se io stesso ho imparato qualcosa, sono per così dire autorizzato a insegnarlo a un altro. Sovente non si vede affatto come l’atteggiamento interiore in rapporto al temperamento, al carattere e così via, – scaturito dall’autoeducazione del maestro o dalla preparazione scolastica, come vedremo – stia nello sfondo di quanto il maestro può appropriarsi, per istruire ed educare, mediante quanto egli stesso impara ed accoglie. Ma anche qui la conoscenza dell’uomo porta appunto nelle profondità dell’essere umano. Lasciate dunque che ci poniamo la seguente domanda: che avviene quando io presento a un altro, a un bambino che non l’ha ancora imparato, qualcosa che io ho imparato? è sufficiente esporlo al bambino nello stesso modo in cui noi stessi l’abbiamo acquistato? Non basta. Dico un fatto empirico che si palesa solamente quando si osserva veramente l’uomo secondo corpo, anima e spirito per tutto il corso della vita.

Per il primo periodo della vita, dalla nascita alla seconda dentizione, tale osservazione rileva quanto segue: quando si sappia osservare il reciproco rapporto tra insegnante e bambino, come ho fatto per i temperamenti, si arriva alla seguente conclusione: ciò che io ho imparato è di minima importanza per l’insegnamento e l’educazione del bambino in questo periodo della vita. Della massima importanza è quale uomo io sono, quali impressioni il bambino riceve attraverso me, se egli mi può imitare.

In verità, una civiltà che appunto per questa età infantile non parlava ancora di pedagogia, ma faceva pedagogia in modo elementare e primitivo, pensava in modo più sano di quanto noi oggi spesso pensiamo; una civiltà come esisteva in tempi antichi in regioni orientali, dove non agiva ancora qualcuno che potesse dirsi pedagogo secondo il nostro concetto, ma dove era specialmente l’uomo per se stesso che doveva agire sull’età infantile, l’uomo come era nel suo carattere fisico, animico e spirituale, l’uomo che doveva stare semplicemente accanto al bambino in modo che questi potesse uniformarsi a lui, muovere un muscolo se egli lo moveva, strizzare gli occhi se egli li strizzava. Egli era però preparato a fare tali cose in modo che il bambino potesse imitarle. Quello non era il pedagogo orientale, ma il data orientale3. Ci si basava ancora su qualcosa di istintivo. Ma possiamo vederlo ancora oggi: ciò che ho imparato non ha nessuna importanza per quello che, come educatore, io sono per il bambino fino alla seconda dentizione. Dopo il cambio dei denti incomincia ad essere un po’ più importante. Ma perde ogni importanza se lo trasmetto come lo porto in me. Bisogna trasformarlo artisticamente, trasporlo in immagini, come vedremo in seguito. Devo di nuovo destare forze imponderabili tra me e il bambino. Per il secondo periodo di vita, per il periodo dalla seconda dentizione alla pubertà, molto più di quanto so, dell’abbondanza di nozioni imparate, molto più di quanto porto in me, nella mia testa, è importante che io possa trasformare in immagini evidenti, in figure viventi, quello che svolgo accanto al bambino e che lascio fluire in lui. Solo per i ragazzi che hanno oltrepassato la pubertà, da quel momento fino all’inizio del ventunesimo anno, diventa importante quello che noi stessi abbiamo imparato. Per il bambino piccolo, fino alla seconda dentizione, quello che è più importante nell’educazione è l’uomo. Per il bambino dalla seconda dentizione alla pubertà la cosa più importante nell’educazione è l’uomo che si trasforma; in vivente artisticità di vita. E solo a quattordici, quindici anni il bambino esige, per un insegnamento educativo e per una educazione istruttiva, ciò che noi stessi abbiamo imparato; e questo dura fino oltre il ventesimo, ventunesimo anno, quando il ragazzo è completamente cresciuto – già prima è una giovane signora o un giovane uomo – fino a quando, appunto, il ventenne sta di fronte agli altri uomini, anche se maggiori di lui, con uguali diritti.

Queste cose permettono di nuovo, – vedremo come tali cognizioni si approfondiscano di fronte ad una vera saggezza umana – di guardare a fondo nell’essere umano. Impareremo a capire che non si conosce il maestro, come spesso si è creduto, quando, dopo la sua preparazione scolastica, lo si esamina per vedere se sa qualcosa; allora si impara soltanto a capire se egli sa esporre come si usa fare quando si sa una cosa, se cioè egli sa esporre in modo adatto per ragazzi dai quattordici, quindici anni fino ai venti. Per le età precedenti non importa affatto quello che il maestro può insegnare. Allora la qualità deve venir giudicata su tutt’altre basi. Così, come base della pedagogia e della didattica, ci si presenta la questione del maestro. E ciò che deve precisamente vivere in un gruppo di bambini, vibrare, fluire fino nel cuore, fino nei moti della volontà e finalmente nell’intelletto, è anzitutto quanto vive nel maestro, e che semplicemente vive in lui per il fatto che egli sta davanti al bambino con una determinata natura umana, un determinato temperamento, un determinato carattere, una determinata disposizione d’anima; soltanto in secondo luogo importa che egli si sia erudito in un certo modo e che possa presentare al bambino quello in cui egli stesso si è erudito.

Così vediamo come la conoscenza dell’uomo ampiamente applicata può essere l’unica e sola base per conquistare una vera didattica dell’insegnamento e per comprendere le esigenze dell’educazione. Su questi due argomenti, la didattica dell’insegnamento e le esigenze dell’educazione, vorrei parlare ancora nelle prossime conferenze.

 

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1 Questo ciclo di conferenze fu tenuto da Rudolf Steiner in occasione di un convegno, svoltosi a Stoccarda dal 7 al 13 aprile 1924, sul tema “Che posto ha l’educazione nella vita dell’individuo e nella cultura del presente”.

2 La prima scuola fondata sulle direttive pedagogiche date da Rudolf Steiner venne fondata a Stoccarda nel 1919. Le scuole steineriane nel mondo sono oggi più di 900, distribuite in tutti i continenti. In molti paesi europei le scuole steineriane sono sovvenzionate dallo stato. In Italia la diffusione delle scuole steineriane è in forte crescita su tutto il territorio nazionale: vi sono attualmente trenta asili, una ventina di scuole elementari e medie e, a Milano, un liceo scientifico e un istituto d’arte.

3 Dal sanscrito: colui che dà, colui che dona con abnegazione

Nota: la presente conferenza è tratta dal testo “ Educazione del bambino e preparazione degli educatori” Editrice Antroposofica Milano