Autorità e autorevolezza di Thomas Homberger

Tratto da il quadernone della via Clericetti – Primavera 1997

 

Vorrei affrontare il problema dell’autorità partendo da alcune osservazioni legate alla mia esperienza personale. Per trentasette anni ho insegnato, come maestro di classe prima e come insegnante di inglese e religione poi, nella scuola “Rudolf Steiner” di Zurigo. In precedenza ho insegnato in un’altra scuola steineriana, in Inghilterra, dove è iniziata la mia formazione professionale sulla base dell’antroposofia. Ho avuto anche la fortuna di frequentare la scuola steineriana di Zurigo come alunno; in quella scuola ho mandato poi i miei figli (otto in tutto, quattro miei e quattro in affidamento). Quando ero studente disapprovavo i modi di insegnamento di questa scuola, frequentata da esseri strani che da adulti facevano euritmia, un pensiero terribile per un ragazzo di nona. Allora ero deciso: “Non farò mai euritmia da adulto”.

Per fortuna, come ogni biografia, anche la mia ha avuto un suo sviluppo. Così a 28 anni, dopo aver avuto esperienze in scuole di indirizzo più tradizionale, sono arrivato a domandarmi che cosa ci fosse di diverso nella mia scuola che mi consentisse di parlare in modo disinvolto e libero. Gli altri studenti mi chiedevano: “Dove prendi il coraggio per sostenere di fronte ai docenti punti di vista opposti ai loro?”.

Mi sono chiesto anch’io da dove provenisse questa forza. Alla base c’è senz’altro una facoltà che ha a che fare con le caratteristiche individuali. Però la capacità di affrontare gli argomenti in modo personale, dicendo tutto quello che è importante pur rispettando l’opinione dell’interlocutore, è stata rafforzata dall’educazione ricevuta, fondata su un modo strano di concepire l’autorità.

In Scomparsa dell’infanzia – Ecologia delle età della vita, Neil Postman sostiene che prima del Rinascimento non si può parlare di gioventù come di un fenomeno di rilevanza sociale, perché adulti e giovani conducevano più o meno la medesima vita. Bastava che avessero imparato a soddisfare da soli le esigenze primarie e i bambini venivano chiamati ad aiutare il padre nel suo mestiere o la madre nelle sue varie faccende: entravano, dunque, nella vita senza passare attraverso la scuola e senza che vi fosse separazione tra l’età infantile e quella adulta. Le cose cambiano tra il Quattro e il Cinquecento, quando la società sviluppa conoscenze nuove. Allora intorno ai bambini comincia a formarsi un mondo a sé stante in cui trovano spazio per esempio i giochi specificamente creati per bambini: un fatto nuovo perché fino al Medioevo esistevano solo giochi destinati a tutti, grandi e piccini.

Nella nostra epoca, secondo Neil Postman, le differenze tra la vita dei bambini e quella degli adulti si sarebbero di nuovo ridotte fino quasi a scomparire (con differenze che variano da paese a paese). Lo studioso mette in relazione questo fenomeno con il diffondersi dell’informazione, divenuta così pervasiva da dare l’impressione che tutto sia conosciuto. Ma le informazioni producono effetti dannosi se non possono essere comprese da chi le riceve. A un adulto possiamo parlare dei pericoli di estinzione che corrono i leoni in Africa o dell’inquinamento che abbruttisce le acque di mari e fiumi. A un bambino no, perché non ha la capacità di comprendere le ragioni di questi fatti e di collegarli alle loro cause. Per questo certe informazioni danneggiano l’infanzia sotto il profilo animico.

Le osservazioni di Postman sono state riprese da uno psicologo tedesco, il professor Kurrelman, il quale ritiene che dobbiamo accettare il fatto che i bambini siano piccoli adulti e parlare a loro come facciamo con i nostri coetanei. Se per esempio scopriamo (come risulta da una ricerca da lui compiuta) che il 2% dei bambini inferiori a 10 anni in Germania fa regolarmente uso di alcool, dobbiamo discutere con loro e spiegare che l’alcool fa male, magari proiettando un film che mostri cosa capita al cervello di un alcolizzato. Ma questo punto di vista non convince. Tutti i giovani sanno che la droga mette in pericolo lo sviluppo della personalità e la vita stessa. In Svizzera è persino obbligatorio parlare di problemi di questo genere in classe e lo si incomincia a fare presto perché diventa sempre più bassa l’età in cui i giovani iniziano a fare uso di droga e di alcool. Qual è il risultato? Che pur essendo informati sui danni che producono, i giovani non rinunciano né alle droghe né all’alcool. Tra sapere e potere c’è un abisso. Io mi sono reso conto che grazie alla mia esperienza scolastica questo abisso in me era meno grande di quanto fosse nei miei coetanei.

Quando i bambini ci appaiono con aspetto di piccoli adulti dovremmo, in realtà, sentirci in allarme: se si comportano così, c’è qualcosa che non funziona. Prima del Rinascimento era naturale che tra infanzia ed età adulta non ci fossero differenze: l’intero mondo viveva nella stagione dell’infanzia. Il processo che ha condotto alla nostra epoca, invece, ha favorito lo sviluppo di un forte senso dell’individualità. Ognuno vive la sua vita e non ci è più molto facile accettare autorità a noi superiori, di natura religiosa o politica.

Noi ci troviamo in una situazione contraddittoria, che ci rende difficile agire anche se abbiamo tante conoscenze. Di fronte ai grandi problemi dell’esistenza ci diciamo consolatoriamente: “Non c’è niente da fare”. O, viceversa, diciamo che bisogna cambiare tutto, la produzione industriale deve fermarsi, dobbiamo difendere la natura, eccetera, eccetera. Poi, però, non facciamo niente. L’uno e l’altro modo di comportarsi portano al medesimo risultato, l’inattività.

Ora cerchiamo di applicare queste osservazioni alla nostra pedagogia. Tutti ricordano che nel 1919 Steiner fondò la prima scuola Waldorf a Stoccarda per i figli degli operai della fabbrica di sigarette Waldorf-Astoria su invito del direttore di quella fabbrica sensibile alle gravi questioni sociali dell’immediato dopoguerra. Steiner accolse l’invito e per preparare gli insegnanti da lui scelti tenne un ciclo di quattordici conferenze, poi pubblicate nei tre volumi di Arte dell’Educazione, con le quali tracciò le linee fondamentali della sua pedagogia. Se dobbiamo esprimerlo con una frase, l’antroposofia è un metodo, un cammino di autoeducazione e non un’enciclopedia di conoscenze strane, un sistema concluso che può essere appreso semplicemente studiando. Ogni insegnante deve compiere il suo cammino e solo mentre lo compie può cominciare a capire che cosa è opportuno fare. Un insegnante steineriano è una persona normale, come tutti gli altri; la sola cosa che lo differenzia da un altro insegnante è che egli abbia scelto di seguire da sé questa strada, in maniera assolutamente libera. Non si può dire a un insegnante: “Tu sei interessato a venire da noi a Zurigo? Bene! Qui c’è un libro, studialo, questo è il tuo cammino”. Impossibile. A un giovane insegnante interessato alla pedagogia steineriana si potrà dire: “Guardi, prenda questo libro, lo legga e poi vediamoci tra un mese”. Dopo un mese il giovane ritorna e dice: “Ho studiato questo libro ma non ho capito niente”. Benissimo, è onesto. Allora possiamo cominciare. Ma se cercasse di scoprire quello che deve dire per farmi piacere si comporterebbe in maniera sbagliata.

E’ importante che insegnanti e genitori cerchino di capire che cosa succede durante la biografia, ma qualche volta è necessario pensare che forse c’è stato qualcosa prima e forse ci sarà qualcosa dopo. Chi ha più di un bambino può vedere che ognuno comincia la sua biografia in un modo diverso: non ci sono due figli uguali. Nei suoi corsi Steiner ha mostrato che l’essere umano attraversa nella sua biografia individuale le stesse tappe che l’intera umanità ha seguito nello sviluppo della conoscenza. Sono passi che ognuno di noi compie, uguali per tutti. Ma li compiamo in una maniera diversa, perché ognuno di noi porta, all’interno di sé le tracce delle esperienze precedentemente vissute.

2. Studi recenti hanno messo in discussione i criteri di misura del quoziente di intelligenza, affermando che ciò che fino ad ora abbiamo considerato come intelligenza misurabile con un quoziente è solo una frazione delle nostre capacità intellettive ed animiche. Sarebbe quindi più corretto parlare di intelligenze (al plurale) anziché di intelligenza (al singolare), distinguendone alcuni tipi fondamentali: quella sociale, quella matematica, emotiva, di movimento.

È bello vedere i ragazzi di temperamento collerico affrontare i padri per ottenere le chiavi di casa e tenerle per tutta la notte. Questo è un esempio di educazione emotiva che serve non solo al giovane, ma anche al papà. È chiaro che noi dobbiamo rafforzare le capacità intellettive tradizionali del bambino e insegnargli a risolvere i problemi di matematica e a valutare i fatti in base a rapporti di causa ed effetto, ma dobbiamo renderci conto che l’educazione richiede molto di più e cioè che siano sviluppate tutte le forme di intelligenza, compresa quella emotiva.

Steiner in “Educazione del bambino e preparazione degli educatori” affronta il problema dell’autorità e afferma: «Come durante l’infanzia imitazione ed esempio sono le parole magiche dell’educazione, così per gli anni ora in questione diventa necessario conformarsi ad un modello e ad una autorità. L’autorità naturale e non imposta deve rappresentare l’immediato modello spirituale in base al quale il giovane forma la sua coscienza, le sue abitudini e le tendenze grazie alle quali indirizza il suo temperamento in modo regolato. Specialmente per questa età vale il bel detto del poeta secondo cui “ognuno deve scegliersi il suo eroe seguendo l’esempio del quale egli si affanna sulla strada dell’Olimpo”. Venerazione e rispetto sono le forze mediante le quali il corpo eterico cresce in modo giusto».

Oggi c’è la tendenza a far entrare i bambini nella scuola molto presto. In Olanda si va a scuola a 4 anni. Gli uomini politici pensano che in tal modo essi saranno in grado di produrre molto prima. Ma se abbiamo chiaro il motivo dell’autorità noi possiamo comprendere perché questa scelta è inopportuna. Il bambino molto piccolo non è infatti sensibile all’autorità, che si forma attraverso l’esempio e l’imitazione.

Non è difficile accorgersi che nei bambini, quando entrano nella scuola, più o meno nella fase del cambiamento dei denti, si va aprendo uno spazio animico e che essi cominciano a guardare il mondo secondo una prospettiva nuova. Vogliono per esempio sapere perchè c’è la nebbia e non si accontentano che si risponda “La nebbia è vapore”, vogliono sapere dov’è la pentola che ha prodotto il vapore. Se siamo capaci di raccontare una storia potremmo dire che l’inverno deve andarsene per lasciare il posto alla primavera e potremmo aggiungere che l’inverno è un signore molto forte e che la sua forza è tanto grande che con il respiro riesce a coprire tutta Milano. Solo quando il sole si dimostrerà ancora più forte lui dovrà ritirarsi in montagna e lì potrà forse ripararsi ancora qualche settimana.

Questo modo di affrontare il problema è salutare perché offre al bambino la possibilità di dare contenuto a uno spazio animico che altrimenti rimarrebbe vuoto, complicando lo sviluppo della sua personalità. Nel bambino che entra nella scuola ci sono tutte queste domande: “Perché io sono tuo figlio? Perché il nonno ha i capelli bianchi? Perché cantano gli uccelli?” A queste domande bisogna rispondere in modo non intellettualistico. Non si può dire “non so”. Anche quando non sappiamo è importante offrire al bambino quel nutrimento animico che lui chiede. Come chi ha fame ha un buco allo stomaco, così il bambino ha un buco nell’anima. Chiede immagini e noi dobbiamo fornirgliele: se non siamo capaci di farlo, non possiamo insegnare nella scuola elementare. Le risposte che noi diamo hanno a che fare con il problema dell’autorità. Quando chiede perché c’è la nebbia il bambino sa che io so, ma lui sta attraversando una fase di sviluppo che noi abbiamo già superato, non è ancora entrato nell’età scientifica, iniziata con il Rinascimento, è ancora fermo a un’età precedente, nella quale l’uomo aveva una coscienza mitologica, non scientifica.

Un argomento scientifico affrontato in modo astratto non può interessarlo, finisce anzi con il costringere l’anima a ritirarsi in se stessa. In realtà ogni “io” si sviluppa nel confronto col “tu”. È una legge fondamentale e vale per tutta la vita perchè lo sviluppo dell’io non finisce mai. Dunque, il bambino cerca con le sue numerose domande il rapporto con l’adulto. Più tardi, in settima classe, si può parlare del freddo, della condensazione. Ora noi abbiamo spiegato la condensazione in modo, diciamo, mitologico, abbiamo dato un’immagine che permette al bambino di entrare nel processo che avviene e l’inverno viene identificato con il freddo.

Allora il bambino chiede: “Quando se ne va da noi l’inverno dove va?” Noi possiamo rispondere che nel mondo c’è posto per tutti e quando noi andiamo al mare d’estate l’inverno è andato da un’altra parte del mondo, dove ora i bambini mettono i cappelli e lì può aspettare fino a quando tornerà da noi. L’idea che c’è posto per tutti va al di là della domanda, la trascende. È un’idea falsa? Naturalmente noi sappiamo che la nostra civiltà non concede affatto spazio a tutti. Ma questa verità (propria dell’età moderna) non può essere ascoltata da un bambino, che si trova nella fase pre-scientifica (pre-moderna) del suo sviluppo. Solo in un secondo tempo noi gli diremo che non c’è posto per tutto ed è bene dirglielo al momento giusto, senza anticipare i tempi.

Anche Gustav Jung, in Conflitti dell’anima infantile afferma che la convinzione secondo la quale si deve sempre dare una spiegazione scientifica ad ogni domanda è sbagliata. I bambini non accettano spiegazioni scientifiche, hanno bisogno di spiegazioni mitologiche (è lui a chiamarle così). Lo sviluppo del pensiero ha bisogno della fantasia. Io penso che abbia ragione e che i bambini che si comportano da piccoli adulti hanno uno sviluppo che procede in modi non sani. Oggi si parla in abbondanza dei problemi dell’ambiente naturale, ma si dovrebbe parlare in modo altrettanto diffuso dei problemi legati all’ambiente animico. Se vivo in una città in cui l’acqua ha molti disinfettanti io non la do da bere al mio bambino. Prendo l’acqua minerale. Non diversamente, se vivo in un ambiente animico che presenta condizioni problematiche io ho il compito, in qualità di genitore e di insegnante, di dare un nutrimento animico sano.

Se osserviamo i nostri bambini, possiamo vedere che essi cercano sempre di conoscere qual è il nostro punto di riferimento. È come se ci chiedessero: “Al punto in cui sei giunto tu, sei capace di darmi una spiegazione che mi consenta di vivere usando le mie forze?” Il bambino vuole conoscere la nostra posizione di fronte al mondo, non difendere la sua posizione. Per lui noi siamo un esempio, un’autorità, che lo vogliamo o no.

Molti genitori ripetono di non voler essere autoritari, di rifiutare l’autorità, perché desiderano che il bambino cresca libero e indipendente. Hanno ragione. Questo è l’obiettivo a cui vogliamo arrivare; vogliamo che il bambino sia indipendente, libero e non una replica del genitore o dell’insegnante.

Il bambino vuole che l’adulto mentre gli risponde si collochi dentro il problema con tutto il suo essere. Se ci limitiamo a dire “è vapore” non facciamo che ripetere quanto abbiamo letto o magari soltanto ascoltato. Se raccontiamo una storia, invece, entra in gioco l’io (la fantasia è più vicina all’io di quanto lo sia l’intelletto). Per tale ragione il bambino è più contento, perché ciò che desidera è appunto fare conoscenza con il nostro io.

Ma nel momento in cui raccontiamo una storia, ci poniamo come autorità. Non possiamo dire “Che cosa pensi se io dico che l’inverno vuole ancora una volta manifestarsi?” Dobbiamo essere convinti che la storia che raccontiamo è vera e, se vogliamo che il bambino l’accetti, dobbiamo porgerla evitando che in lui sorgano domande interiori. Il bambino è contento se gli presentiamo un mondo che sembra chiaro, tutto ordinato. Ovviamente, io so che il mondo non è chiaro, ma il bambino ha appena iniziato a sviluppare le sue capacità di percepire il mondo: non potrebbe sostenere un’immagine di esso tutta negativa.

Non è facile oggi tenere tranquilla una classe di 30 bambini; l’ambiente animico del nostro tempo non è favorevole alla venerazione verso il maestro o la maestra. E come la venerazione non può essere reclamata, così l’autorità non si può imporre. Come fare allora a mantenere la disciplina senza affidarsi alle urla? La mia esperienza mi insegna ancora a incominciare con una storia: “Stamattina, quando era ancora buio, ho sentito il canto di un uccellino che era così chiaro, come questo triangolo (e faccio sentire il suono di un triangolo)”. Tutti si mettono a guardare e a sentire più intensamente, con la testa che viene fuori un po’ (i bambini fanno così). Oppure racconto che ho una piccola fattoria con un piccolo cavallo e il cavallo vuole correre: “Chi vuole mostrare come corre un cavallo?”, domando. Naturalmente tutti vogliono provare. Momento di caos. Ma è necessario che ci siano momenti di tal genere perché poi si ritrovi la concentrazione necessaria. Non si può rimanere concentrati tutta la mattina.

Per stabilire l’autorità è importante partire da immagini che abbiano la stessa intensità di una fiaba. Il grande psichiatra Bruno Bettelheim, in Il mondo incantato, ha affermato che in base alle sue ricerche si può constatare che i bambini che hanno avuto la fortuna di sentire raccontare tante fiabe hanno un io più robusto e hanno a disposizione una maggiore forza per far fronte agli impulsi che provengono dall’esterno o dal loro interno. Tutte le fiabe danno nutrimento allo spazio vuoto che c’è dentro i bambini e non c’è giorno in una scuola steineriana in cui l’insegnante non racconti una fiaba. L’autorità è il prodotto del rapporto che si instaura fra un “io” e un “tu” e un discorso per immagini è il mezzo migliore per creare questo rapporto. Se non ho voglia di offrire le immagini richiestemi e mi metto di fronte al televisore a guardare un film (sia pure un film per bambini), allora io sono un’autorità che si siede davanti al televisore e con questo atto dice: “Io non sono in grado di produrre qualche cosa per te, ma ecco qui che c’è chi può farlo al posto mio” e il bambino, piaccia o no, recepisce come atto autoritario anche questa rinuncia a esercitare l’autorità. Allora, siccome ha bisogno di immagini, accoglie quelle che provengono dalla televisione. Con la differenza che viene a mancargli il calore che ha il rapporto vivo fra un “io” e un “tu”.

Una volta in prima classe mi è capitato di raccontare una fiaba russa sul regno del duca del ghiaccio. Qualche giorno dopo mi telefona una madre allarmata perché suo figlio si svegliava ogni notte parlando di neve e di ghiaccio. Io mi sono domandato se per caso avessi raccontato in modo troppo drammatico o addirittura avessi scelto una fiaba sbagliata. Il giorno dopo il bambino, mentre camminiamo tutti insieme, mi dà la mano e mi dice.”Signor Homberger, lei ha visto quel terribile incidente capitato in Savoia dove una casa per bambini è stata distrutta da una valanga?” Allora ho capito quello che era successo. Le immagini che entrano nella mente del bambino senza che vi sia attività da parte sua, rimangono lì non trasformate e ne influenzano l’anima, causandogli anche sogni spaventosi.

3. Riprendiamo il discorso da una frase che Steiner pronunciò in una conferenza sull’età puberale: “Il giusto rapporto di autorità – egli afferma – che deve esistere tra maestro e bambino dal cambiamento dei denti alla pubertà non viene creato in nessun altro modo che non sia lo sforzarci di configurare l’insegnamento in modo artistico – figurativo; se ci riusciamo il rapporto di autorità nasce sicuro. Ciò che mina il rapporto di autorità è l’intellettualismo unilaterale”.

I bambini che hanno avuto un’educazione di tipo intellettualistico non possono accettare l’autorità. Se invece, come genitori e insegnanti impostiamo l’educazione su basi artistiche, per esempio raccontando ogni sera una storia, allora attraverso il rapporto io – tu noi rafforziamo la sfera di autorità. Certo, nessuno di noi è sempre pronto a rispondere con immagini piene di fantasia alle esigenze del bambino. Se il mio nipotino mentre io sto, mettiamo, preparando gli spaghetti viene a chiedermi “Nonno, puoi raccontarmi una storia”, io rispondo: “No, adesso non posso, devi aspettare che prima finisca”. Lui insiste: “Ma non puoi?” io so che non devo cedere: “No, non posso, sono impegnato. Stai zitto, se no non te la racconto più tardi”. Questo è un esempio di autorità che funziona in quanto si regge sul rapporto io – tu. Quando sussiste tale rapporto, si può anche essere molto rigidi quando serve e dire: “Basta”. Né è necessario mettersi a discutere sull’importanza degli spaghetti e dell’atto di cibarsi. È sufficiente un “basta!”. Se però prometto: “Dopo che abbiamo finito di mangiare ti racconterò la storia”, allora la storia dopo mangiato devo raccontarla. Il bambino l’attende e io non posso deluderlo.

Molti miei colleghi quando perdono le staffe in classe minacciano: “Se voi, cari bambini, continuate a chiacchierare, io me ne vado”. E poi non lo fanno, non se ne vanno mai. Comportandosi così si danneggia l’autorità. È meglio non minacciare punizioni troppo spesso; ma quando lo facciamo, si deve essere seri. Un esempio. Nona classe, in Svizzera. I ragazzi chiacchierano; io arrivo e loro chiacchierano. Dico: “Ragazzi vogliamo cominciare, alzatevi”. Sanno che quando li esorto ad alzarsi devono smettere di parlare; quelli, però, continuano a chiacchierare. Insisto: “Cari amici, ora basta”. Loro, niente; continuano. Aggiungo: “Guardate che se qualcuno chiacchiera di nuovo, io me ne vado”. Ed ecco che da bravi tacciono. La minaccia ha funzionato. Perché un anno prima loro non si sono fermati e io me ne sono andato davvero dicendo: “Sono nell’aula insegnanti”. Dopo dieci minuti sono venuti a cercarmi. Ho ritrovato la classe zittissima. E ho detto: “E’ molto bello che voi stiate così zitti, ma, guardate, ora abbiamo perso venti minuti di lezione; non vale la pena riprendere per gli ultimi venticinque minuti; è troppo tardi per quello che avrei dovuto fare oggi, non basta il tempo; riprenderemo giovedì mattina alle sette”.

Io penso che i castighi abbiano senso se alla base c’è un intenso rapporto io – tu. Ciò che è importante è che il castigo sia il risultato dell’amore e amore non vuol dire concedere tutto. È necessario che nel suo sviluppo il bambino faccia i conti con dei limiti, ma i limiti che noi diamo ai bambini e ai giovani devono essere davvero necessari e non imposti perché fanno comodo a noi. Ogni bambino per esempio vuole ritardare il momento di andare a letto e per farlo trova i motivi più fantasiosi. Bisogna limitare tanta fantasia. Ma non dobbiamo mandare a letto il bambino perché vogliamo guardare un programma interessante alla televisione (il bambino ha un sesto senso che gli permette di conoscere i veri motivi delle nostre azioni). Dobbiamo farlo perché siamo consapevoli che è opportuno mantenere un ritmo e che il ritmo è sempre di aiuto per l’agire.

Quello di cui è capace un bambino è il risultato del suo rapporto io – mondo, un rapporto che è sempre individuale. Se un ragazzo ha difficoltà a disegnare perché le sue forme vengono sempre piccole piccole e un giorno fa una forma un po’ più grande, allora io posso scrivere sul suo quaderno bravissimo, mentre sul quaderno di chi, più dotato, ha fatto bene al primo tentativo e poi non si è più preoccupato di migliorare i risultati, posso scrivere bene. Questo non vuol dire che chi è molto dotato riceve sempre una doccia fredda, ma a lui devo chiedere che metta nel suo lavoro non solo le capacità, ma anche l’impegno. Noi dobbiamo come educatori lavorare col presente verso il futuro e verso il futuro la cosa importante è sviluppare la forza della volontà, l’impegno.

A mio parere noi spesso concediamo premi o impartiamo punizioni in maniera sbagliata. Non serve costringere un ragazzo che abbia dimenticato il quaderno a scrivere cento volte: “Io non devo dimenticare il mio quaderno”. In un momento in cui non sa che cosa fare si metterà a scrivere “Io non devo dimenticare il mio quaderno”, tiene il foglio in cartella e il giorno in cui ha dimenticato il quaderno dirà: “Maestro ho dimenticato il quaderno, ma ho già fatto il lavoro di castigo”.

Il problema della punizione è sempre legato alla fantasia dell’educatore e posso riconoscere che la mia fantasia tante volte è debole e anche a me capita di sbagliare. Ciò che conta è comunque che alla base ci sia questo rapporto io – tu e dobbiamo fare in modo che il bambino senta che questo rapporto non può essere comunque messo in pericolo.

Se so trovare le immagini adatte al suo sviluppo riesco a portare armonia nella sua anima, anche se il mondo intorno è tutt’altro che armonioso. Né è necessario accentuare le differenze rispetto ad altri modelli di vita. Con i bambini di questa età non si deve puntare sulla polarità. Se i bambini vanno dai nonni e lì c’è la televisione, bene, vedranno la televisione dai nonni e da noi no. Non serve una discussione sulla televisione per mostrare perchè da una parte la si può vedere e dall’altra no. Quando arriveranno intorno ai 13-14 anni tutto sarà diverso. Allora si dovranno spiegare i perché e sulle cose si potrà discutere insieme fino a mezzanotte senza arrivare ad un accordo: l’età dell’autorità sarà allora finita.