Domande pedagogiche

Alessandro Galli Dalla rivista “Raggi di sole”, della scuola di Trento

 

Nell’ambito delle conversazioni tenute a scuola dal professor Alessandro Galli sul tema dell’adolescenza, proponiamo ai nostri lettori una serie di domande e risposte, una sorta di verbale del dialogo vivace e partecipato, avvenuto in coda ad una delle conferenze.

Si tratta a nostro avviso proprio di domande urgenti, comuni a tutti i genitori e perciò abbiamo deciso di dare loro questo spazio del giornale.

L’autorità continua ad essere necessaria, al di là della situazione conflittuale che si va spesso creando con il periodo della pubertà. Incalzano però le richieste di libertà, di autonomia, di tempo e di denaro, che fare? Come porsi di fronte al problema delle attività extrascolastiche, all’uso del tempo libero? Come affrontare il problema della socialità che i ragazzi vivono in casa, con la presenza di televisioni e altri strumenti che invadono lo spazio familiare? Questi sono tre capitoli importanti.

Domanda: L’educazione sessuale. Quando cominciare? E come?

Risposta: Secondo il mio parere, l’educazione sessuale dovrebbe essere curata prevalentemente dalla famiglia, attorno ai 12, 13 anni, al risveglio delle funzioni biologiche, fisiologiche che rendono i ragazzi fisicamente atti alla procreazione. È un tema che dovrebbe essere affrontato con la dovuta serietà e riservatezza, cercando immagini che non feriscano, che non offendano il pudore dei ragazzi e delle ragazze.

A scuola noi affrontiamo questo tema in un’epoca di biologia in VII classe nell’ambito dei temi riferiti all’alimentazione e all’igiene. Nella nostra concezione le funzioni riproduttive sono collocate nel sistema degli arti, e quindi legate alla sfera della volontà, come i processi digestivi. È tutto ciò che ci porta verso il futuro, che elabora sostanze per il futuro. L’attività metabolica è legata al futuro dell’organismo umano, l’attività riproduttiva è legata al futuro della specie, quindi del destino umano, dell’umanità nel suo complesso. In quest’epoca si tratta il tema dei processi riproduttivi, con la descrizione degli organi della sfera sessuale. Qui la sensibilità dei maestri è assai differenziata; ci sono coloro che arrivano fino alla descrizione, al disegno dettagliato degli organi riproduttivi e ci sono coloro che si mantengono nella sfera di descrizioni più immaginative, parlando, trattando, affrontando ogni possibile domanda. Dopodiché nel piano di studi non si ritrova più nulla di tutto ciò fino all’XI classe, quando si parla di embriologia, e quindi di tutti i processi che presiedono alla formazione del nuovo essere umano.

Che cosa ci dice Rudolf Steiner a questo proposito, e che cosa mi dice, a conferma di questo, la mia esperienza in proposito? Che una sana educazione che porta i ragazzi a vero interesse verso il mondo, vera attività, vera curiosità verso la vita e l’esistenza non richiede una trattazione specifica, approfondita di questi temi.

Noi, infatti, lo facciamo prima del periodo buio, in cui questi argomenti possono diventare anche fonte di drammi e di problemi. Questo tema è uno di quegli elementi del processo di “malattia” che caratterizza questa età, quando i ragazzi vivono tutta la propria organizzazione come caotizzata, dissestata. All’interno di tutto questo compare anche la maturazione sessuale rispetto alla quale vengono prodotte una serie di situazioni animiche ben precise oltrechè dei disagi per le trasformazioni corporee complessive. Non bisogna focalizzarsi sugli elementi generatori di questo caos, ma bisogna portare tutta l’attenzione sugli elementi risanatori. E dov’è l’elemento risanatore? È nella capacità di interessarsi del mondo, delle sue grandezze, dei suoi enigmi e non solo di sé stessi e delle proprie “miserie”.

Se la pedagogia riesce ad essere sviluppata così, queste domande vivono con maggiore tranquillità, con maggiore serenità, sullo sfondo quasi. Diventano un problema, il corpo diventa un problema, nel momento in cui non riusciamo in questo e i ragazzi si ritirano in sé stessi, intristiscono, si annoiano, pensano solo alle loro “miserie”, e pensandole le ingigantiscono, trasformando in problema ciò che potrebbe essere invece una possibilità nuova di esperienza e di vita. Diventa un problema perché una vita malsana lo fa diventare tale, perché tale non dovrebbe essere.

Le esperienze pedagogicamente “più riuscite” mostrano come tutta questa tematica venga ridimensionata, sdrammatizzata e portata a coscienza negli anni in modo positivo e sano.

Per alcuni è una vera guerra per la quantità di drammi che può portare con sé, nei maschi in modo più esplicito, nelle ragazze in modo meno manifesto ma tuttavia anche assai forte.

L’elemento risanatore è questo: non c’è necessità di parlare di queste cose se non per domande che sorgono, se non per la curiosità che emerge, se non come riferimento ai processi naturali. Naturalmente non si evita di parlare di questo, ma non se ne fa oggetto di trattazione specifica, soprattutto con quel taglio psicologico un po’ drammatizzante di tanta educazione sessuale di oggi.

In questa età, se l’educazione è condotta male, nei ragazzi si crea erotismo e desiderio di potere. Queste sono due malattie che generiamo noi, che non sono connaturate né al periodo, né alla tematica sessuale che si va sviluppando nei modi che vediamo manifestarsi nei ragazzi e nelle ragazze. Ma se non conduciamo una sana azione educativa, creiamo il presupposto perché questi elementi (che sono al di fuori del rapporto con la sessualità) non sani divengano dominanti.

L’altro aspetto, è l’elemento della volontà di potere sugli altri, che si manifesta nel momento in cui i ragazzi sono ripiegati in sé stessi, non portati ad un’azione verso l’esterno: diventano allora un po’ tristi, melanconici, egoisti nel senso deteriore del termine; sono centrati su sé stessi.

Queste sono le manifestazioni più evidenti di un’educazione malsana, di cui la scuola può essere responsabile quanto la famiglia e la società nel suo complesso. Quando vediamo manifestarsi nei ragazzi questo tipo di comportamento, di atteggiamento, bisogna chiedersi dove si è sbagliato, e cosa fare per rimediare. Questi fenomeni non si manifestano solo nel singolo, ma generalmente anche nel gruppo: qualcosa non funziona nella classe.

C’è quasi sempre un singolo che ha più problemi di questo genere ma bisogna capire se ciò viene dal clima dominante del gruppo. In questo caso vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa, non abbiamo impostato correttamente certe fasi, certi passaggi, certe attività. Vuol dire che è stata data precocemente libertà e responsabilità. Questo è l’errore più frequente. Ai ragazzi viene offerta troppo presto una libertà che non sono in grado di gestire, viene chiesto loro di portare responsabilità superiori alle loro capacità.

Quando i ragazzi di quell’età vengono lasciati a sé stessi quello che succede è generalmente questo: o intristiscono, si chiudono in sé stessi, sono melanconici, oppure, cominciano ad aggregarsi in “bande”, commettendo furtarelli, piccole aggressioni, e talvolta cose anche più gravi.

Il tema che proponevo prima, la libertà, l’autonomia nel tempo e nell’uso del denaro (come e quando graduarla) è a questo punto estremamente importante, perché un’autonomia, una libertà data troppo presto e in misura troppo larga, rischia di scatenare dinamiche che possono portare alle conseguenze descritte sopra.

I giovani, in verità, sul piano della vita sessuale non hanno esigenze né capacità di affrontare una relazione di questo tipo per esempio, a 12, 13, 14 anni. Anzi tutta questa sfera viene vissuta con molto pudore, con molto rossore, con molte domande interiori, (“Cosa mi succede?”, “Cos’ è?”). È il mondo adulto che porta incontro, semmai, una esasperazione di questi aspetti, sollecitando domande anzitempo. Giovani che hanno le loro prime esperienze sessuali complete a 12, 13, 14 anni (e ce ne sono tanti) non hanno un vantaggio di anticipata emancipazione ma vivono spesso esperienze dolorose, sperimentano di trovarsi dentro una dinamica più grande delle loro capacità di gestirla. In questo senso il tutelarli gestendo sapientemente i gradi di autonomia da concedere di tempo e di denaro, diventa un dovere fondamentale perché con il denaro si creano situazioni in cui si costruiscono compagnie, avvengono incontri. Le feste per esempio: a 12, 13 anni, si fanno già con i ragazzi da soli, con le luci basse, le musiche ecc. Non portano niente di buono, ma vengono fatte e non sempre lasciano una buona traccia. Talvolta sono momenti di divertimento e basta, talaltro creano problemi che altrimenti non si sarebbero presentati.

È chiaro che c’è anche il desiderio di fare queste esperienze a imitazione degli adulti, ma bisogna saper gestire con creatività quello che in fondo è un bisogno di scimmiottare certi modelli, certi comportamenti.

Mi ricordo una volta mia figlia, dodicenne o tredicenne, già sviluppata, piuttosto ben messa, prosperosa, ma ancora una ragazzina, si presentò in casa un sabato a mezzogiorno dopo esser stata con le amiche, con labbra dipinte, tacchi alti, minigonna… pronta per andare ad una festa del pomeriggio.

Come ci si comporta in situazioni simili? L’istinto sarebbe quello di dare due scappellotti, di strillare “Togliti tutto, ti lavo la faccia…!” Ma non è questa la risposta. La situazione porta un messaggio, “Sto cambiando, babbo guardami, sono donna!”

12 anni e mezzo! Per certi aspetti ci sono tutti gli elementi perché lei si possa considerare una donna, ma non ha l’autonomia, la capacità di gestire la propria libertà e portare le proprie responsabilità. Le compagnie, gli amici, la società, la scuola e tutto quanto portano ad anticipare questo tipo di esperienze di incontro anche con il maschile.

Ricordo poi come si è risolta questa cosa, alla festa non andò, e fino a 15 anni (accompagnata dal sottoscritto) non andò in nessuna balera, nessuna discoteca. A 15 anni, sotto l’occhio del babbo (era un po’ d’anni fa, eravamo un po’ retrogradi, magari adesso non si fa più), il primo bacio sulla guancia mentre ballava, la fuga dalla discoteca subito, avvampata di rossore, il non sapere come andare avanti, che fare, …”Babbo portami a casa”, testa sulla spalla, pianto…

Come accompagnarli nelle varie tappe? Non basta concedere solo la libertà. ”Fai quello che vuoi!” non funziona. Ciò che deve essere portato loro incontro è un messaggio di questo genere: “Sei una bimba, ti stai evolvendo, sei in un momento critico, rispondi a me, io sono responsabile di te”. Quindi i limiti devono essere ancora precisi, ragionevoli, motivati, devono tenere conto che c’è del nuovo. Dove indirizzare questo nuovo? Nel sociale. E qui viene fuori tutto il discorso delle attività da cominciare a costruire prima e da portare avanti durante questo periodo così complesso: movimento, attività fisiche, gioco.

Le attività di gioco vengono oggi curate pochissimo. Sono scomparsi i luoghi dove i ragazzi e gli adulti organizzano giochi assieme. Sono passati quei tempi. Oggi la babysitter che governa tutto è la televisione soppiantata in alcuni casi dal computer. Tempo libero? Televisione, computer. “Non disturbano, stanno calmi, tranquilli, noi anche”. Tutto è risolto. Non c’è un’educazione alla socialità nel gioco, nel divertimento, nello sport. Poco, troppo poco. Le passeggiate con la famiglia, quando, dove? Certo vi sono le preoccupazioni, il tempo, il costo, ma quelle sono cose che vanno curate. E l’arte, la musica, lo studio di uno strumento musicale, non necessariamente per diventare violinista o altro, ma per imparare uno strumento adatto a cui fare appello ancora negli anni di crisi. È chiaro che dopo, magari a 14 anni la ribellione passa anche attraverso il rifiuto dello strumento, ma quel nutrimento l’hanno avuto, quella sensibilità ce l’hanno dentro, è un patrimonio che hanno acquisito.

Ciò vuol dire che non si tratta soltanto di dire dei “no”, si tratta di impostare delle attività che siano sane e adatte sul piano della socializzazione tra le famiglie, tra i ragazzi tra di loro. Su questo piano c’è tutto da costruire. Siamo in una società che frantuma, atomizza, crea troppe separazioni e ci abitua troppo a interloquire, a parlare, a comunicare attraverso i media.

In occasione di un convegno incontrai una persona che lavora ad alti livelli nell’ambito della telematica. Con uno sguardo rapido mi disse: “Abbiamo in mano lo strumento rivoluzionario col quale toglieremo il potere a tutte le televisioni, a tutti i poteri centrali. La telematica produrrà in pochi anni, e costerà pochissimo, uno strumentino da tenere in mano, col quale un bambino di qui si potrà mettere in comunicazione con un bambino australiano e giocare con lui. (E non saprà giocare, dialogare con il vicino di casa, perché avrà bisogno di un strumentino per parlare e giocare anche con lui: aggiungo io).

Questo è il tipo di umanità che si sta formando, che la società sta plasmando e verso il quale va strutturando anche le sue risorse e i suoi modi di essere. Non è certo il tipo di umanità che corrisponde all’ideale che abbiamo delineato nelle scorse lezioni.

Si apre qui un altro capitolo scottante. Senza voler demonizzare il tema dell’uso dei computer bisogna porsi le domande circa il Quando e il Come.

In XII nella scuola Waldorf viene introdotto il computer, per tutti ragazzi e ragazze. Si fa tecnologia del computer dalla IX, e in XII arrivano a programmare, usare questo strumento, per comprenderlo, per utilizzarlo, non per diventare a loro volta strumenti.

Dobbiamo incontrare e sperimentare nella vita, tutto ciò che il mondo fa e produce. Ma quando, come, in che modo, a che età? Bisogna pensarci.

Quando 100 anni fa in Ticino fu portata la prima linea telefonica, un istituto di suore di Lugano, tormentato, si oppose al passaggio della linea telefonica sul suo terreno, perché strumento del demonio. Il telefono, adesso, chi lo chiama più così? È usato da tutti, è in tutte le case, è normalissimo non solo in tutte le case ma anche negli scompartimenti ferroviari, in automobile, per strada. Vi rendete conto che nello scompartimento del treno non si parla più? Non c’è più capacità di parlare?

Si vedono inoltre ragazzi camminare e muoversi al ritmo delle musiche che bombardano le loro orecchie: i walkman! Questo è uno strumento che io sconsiglio a chiunque, è micidiale. Certamente non é per i ragazzini, per i bambini. Ma gliele regalano a Natale queste cose, le ricevono dalla nonna per Natale, il walkman con le musichette per bambini a 4 anni! Che cosa significa? Che non abbiamo capito niente.

Qual è l’alternativa ? Certo qualcosa di più faticoso della macchinetta dove basta schiacciare il bottone per farsi bombardare di musica, che è meccanica e fa tutto da sola. L’impegnarsi, ogni sera cantare la ninna nanna, magari con due note di flauto, prima del pasto dire una preghiera o cantare una canzone insieme, questo è un impegno. È chiaro, in una società che ci bombarda e che ci impone i ritmi che tutti noi sappiamo è più facile meccanizzare tutto. Schiacci il pulsante, parte la canzonetta, poi non disturbi neanche, sei lì, solo con te stesso. La cosa più importante sembra essere quella di “difendersi” dall’aggressione che i bambini, i ragazzi portano, quindi dargli qualcosa che li tenga tranquilli. Non è questa la pedagogia. Pedagogia significa confrontarsi, impegnarsi, dare del tempo, con amore, con forza, energie, e non solo a scuola ma anche a casa, con i ritmi e le attività che si costruiscono.

Questi strumenti (walkman, schermi televisivi, giochini elettronici, tutto questo mondo) invadenti sono per i bambini assai dannosi, proprio fisicamente dannosi, creano passività o ipercinesi. Oggi bambini così, ipercinetici o passivi, sono l’80%. 20 anni fa erano il 10%. Disastro generale! La scuola diventa un centro di terapia. La pedagogia è confrontata sempre di più con i disastri prodotti da questi errori pedagogici. La scuola pubblica è sottoposta a un continuo processo di richieste alle quali non è preparata, e istituzionalmente non dovrebbe neanche farsi carico del tipo di sollecitazioni richieste.

È una lotta impari, non è un tema facile ma dobbiamo affrontarlo, affrontarlo con strumenti idonei, che sono questi: l’essere umano va portato al confronto con tutto, con tutte le esperienze, ma nei tempi e nei modi corretti, che non lo distruggano ma che lo costruiscano.

Il computer, la televisione, la telematica possono essere strumenti con i quali il processo di evoluzione dell’uomo, simbolo dell’umanità, viene accelerato, favorito?

Certamente. Ma al tempo giusto, nel modo giusto e con le motivazioni giuste. Ma nel secondo settennio, occorrono sane esperienze socializzanti: sport, ricreazione, movimento, divertimento. I bambini non sanno più divertirsi. Come ci si diverte? Ricordo una classe di teledipendenti. Gli allievi di quella classe passavano ore davanti al televisore.

Nelle attività in cui c’era più possibilità di esprimersi, ripetevano a memoria e infinite volte i testi di alcuni film assolutamente scemi e insignificanti. Cosa vuol dire questo? Vuol dire distruggere i ragazzi nella volontà innanzitutto; li si rende passivi, gli si toglie la capacità creativa e immaginativa, si divertono solo con le scemate prodotte da altri e ripetute. Dov’è l’umorismo del singolo? Dov’è la capacità di ridere, divertirsi, fare scherzi, fare qualcosa di bello insieme? Scomparsa, perché tutta questa sfera che dovrebbe essere attivata proprio a 11, 12, 13 anni non viene minimamente alimentata. Gli sport diventano troppo spesso prestazioni agonistiche, lo strumento musicale diventa troppo spesso specializzazione, con la quale bisogna misurarsi per riuscire, per realizzare, per dimostrare che si è più degli altri.

Sembra tutto snaturato, si creano solitudini, tensioni, anziché socializzazione e armonia.

Quest’età richiede più forze, più energia, più tempo, più presenza. Sembrerebbe che quando i ragazzi cominciano a potersi staccare richiedano da parte degli educatori meno impegno. Ma non è così, questo distacco richiede un cambiamento interiore d’atteggiamento. Intelligenza, inventiva, capacità di proposte.

E su questo, con tutti quelli che mi chiedono, sono drastico: a proposito di uscite serali, il tipo di divertimenti, le discoteche… Abbiamo purtroppo situazioni sfasciate da questo punto di vista. Ragazzi e ragazze di 14 anni che rientrano alle 4 di mattina dalla discoteca! Queste cose sono disastri. Fatte a 18 anni, niente da dire. Provare tutto a 18 anni vuol dire provare anche questo, e poi metterlo in un ritmo di vita in cui può entrare una o due volte all’anno. Se le esperienze vengono fatte al tempo giusto non creano dipendenze. A 14 anni imitano un fenomeno da grandi, e le famiglie lasciano questo spazio, colpevolmente. E i risultati? Disastri! Non sono più riconoscibili nella classe, arrivano sfasciati.

Secondo me, questo tipo di libertà va impedito, fisicamente; non va data l’autorizzazione. Vanno mantenute ben salde delle regole precise circa i rientri entro una certa ora; le regole possono cambiare con gli anni; regole così sono dure da tenere, ma è necessario sapere che cosa vanno a fare i nostri ragazzi e con chi. E possibilmente rimanere attivi, anche se un po’ dietro le quinte, nell’organizzazione dei movimenti sociali.

Stimolarli: creare attività individuali o sociali più adatte. Bisogna tenere conto che i ragazzi non sono tutti uguali. A 11, 12, 13 anni, si cominciano a sviluppare anche interessi individuali specifici, bisogna indirizzare le risposte tenendo conto dei tipi e dei temperamenti. In questa fase vengono talvolta attivati hobby che diventano carte vincenti, chiavi per l’intera fase evolutiva. Avviate un melanconico ad una attività di collezionismo e gli darete pane per i suoi denti. Date da fare una collezione a un sanguinico? Ma per carità! Date qualcosa di cui non ha neanche l’idea di cosa possa essere il senso.

A un sanguinico o una sanguinica date qualcosa di utile nel campo sociale. Cominciamo anche ad abituarli ad un senso sociale del proprio tempo e del proprio denaro, a non buttare via il tempo, a spendere le proprie risorse in un modo intelligente e utile. Per i sanguinici dunque qualcosa nel campo sociale di utile, variato, che li impegni, li tenga in rapporto, in relazione con la classe ma anche col paese, con la piccola comunità.

Date un compito preciso, regolare, ripetitivo a un flemmatico, di responsabilità; non si fermerà mai. E date qualcosa da realizzare a un collerico, qualcosa di significativo: “Scala i Denti della Vecchia quattro volte in un pomeriggio, su e giù, batti il record del mondo dei ragazzi di 12 anni”; un’impresa, un’avventura.

Bisogna fornire modelli di cose significative e nobili. Non pensando che il nobile sia chissà dove. Il nobile a quell’età, l’alto, per il ragazzo equivale ad esempi di forza, usata bene. Per altri bellezza, gestita bene. Questo è l’ideale, i modelli secondo i quali costruiamo struttura, forza morale, sicurezza nei ragazzi, e su questo bisogna essere attivi.

Sempre parlando di attività, vanno creati momenti di riflessione, di gestione della solitudine, dei momenti in cui ci si trova soli con se stessi. Questo è un altro aspetto curato pochissimo, perché per esempio si lascia il televisore acceso! Televisore spento e lettura, letture adatte alle varie età. Questo è nutrimento.

Ecco subito un altro tema importante: i ragazzi leggono sempre meno. Perché? Perché vivono in un mondo di immagini, perché si pensa di conoscere quando si è visto. Non si educa neanche a vedere; si educa a essere bombardati da immagini. Ma “Vedere” è una cosa diversa. Quando Leonardo ci diceva che l’occhio è lo strumento principale della conoscenza (e pensava di fare una enciclopedia universale costruita su disegni – perché tutto ciò che è conoscibile è disegnabile e conoscibile con l’occhio), diceva qualcosa di grande.

Oggi non ci si ferma su nulla, su nessuna osservazione, su nessuna immagine. Non si conosce niente in profondità. Si è semplicemente bombardati. Poi si pensa di sapere perché si è visto, perché sono passate delle immagini. Non si è più abituati, non si abituano più i ragazzi a una sana lettura, che dà tanto nutrimento.

Fortunatamente, anche per questa età esiste una letteratura abbastanza vivace, interessante, variata. Basta cercare.

Domanda sull’agonismo sportivo.

Risposta: non ho niente da dire contro un sano agonismo. Che “io riesca meglio di te” può andare benissimo, non va interpretato male. Ciò che diventa dannoso è uno sport praticato quasi professionalmente nel secondo settennio. Questo crea in moltissimi casi, irrigidimenti muscolari. Ci sono casi documentati di ragazzi che hanno esercitato il violino in forma eccessiva nel secondo settennio e si trovano con i tendini troppo corti, non sufficientemente elastici per adeguarsi allo sviluppo della ossa e allo sviluppo muscolare.

Questo è un aspetto fisico; poi c’è un aspetto animico. Il secondo settennio non è tempo dell’individualità che compete e si afferma nei confronti di un’altra individualità. È il tempo dell’armonia, della comunità, del gruppo, delle cose fatte armoniosamente. Quindi la musica praticata individualmente dovrebbe servire per conflluire in un’orchestra in classe. Ma le cose non vanno forzate perché altrimenti si creano delle rigidità del corpo e dell’anima. Che facciano giochi anche competitivi (nel senso che uno vince e l’altro perde) fa parte della normale dinamica di tutte le età. Ma non è questo il punto di forza usato pedagogicamente per stimolare. Non è invitandoli ad impegnarsi per vincere e quindi essere i migliori che li aiuta. No. L’impegno principale dovrebbe essere quello di vivere momenti di gioco, di divertimento, di sport anche in senso agonistico, ma senza che questo costituisca un mito. Non si deve far leva sulla competizione per stimolare tutti a sviluppare muscoli, non è questa l’età dei muscoli possenti. Errori così si pagano più tardi. Si pagano fisicamente come esperienze vissute fuori tempo. Nel terzo settennio possono anche andare bene. Qui a scuola (a Lugano n.d.r.) abbiamo la campionessa svizzera di nuoto sincronizzato, in XII, che gode di tutte le libertà per andare a fare allenamenti e gare, e va benissimo. Ma se avesse cominciato a 10 anni a fare nuoto sincronizzato come lo fa adesso, ora non sarebbe normale del tutto, né fisicamente né interiormente. Questa attività per esempio dà una grande serietà; state tranquilli che questa non fuma, né si droga, né ha problemi o desideri in questa direzione.

I nullafacenti, i pigri, gli annoiati appartengono a un’altra categoria. Quindi, in questo senso, è bene che si facciano queste attività. Prima in forma di esperienza sociale, dopo anche in forme come quella appena descritta.

Quanti ragazzi trovano nello sport la strada per non degradare. Però al tempo giusto, nel modo giusto, scegliendo lo sport giusto, che porti effettivamente a una valorizzazione delle qualità fisiche, dignitosa, non esasperata, di tipo “identificazione con l’idolo”, come purtroppo avviene in tanti casi.

Domanda: Tornando all’educazione sessuale, io la vivo in prima persona quale insegnante. Lei diceva del coinvolgimento della famiglia. La mia esperienza è quella di vedere delle famiglie con dei genitori decisamente impreparati ed inoltre riscontro spesso nei ragazzi un grande imbarazzo a parlare in casa di sessualità. Spesso questo è un argomento tabù in casa, o da parte dei genitori o da parte dei ragazzi.

Risposta. Dovremo lavorare con i genitori perché superino queste difficoltà, perché siano loro a prendere l’iniziativa nel momento giusto e nel modo giusto. E poi è giusto che se ne parli anche in classe. Noi facciamo in questo modo, non è detto che sia il migliore. I genitori vengono invitati dai maestri con riunioni specifiche in ogni VII classe; viene trattato il problema e vengono invitati ad affrontare l’argomento con i ragazzi. Il tema viene portato dai maestri e posto alle famiglie come responsabilità loro di portare una seria informazione. Perché la famiglia è a disagio nel parlare con i bambini di queste cose?

Perché certi argomenti stimolano le battute e le parolacce, e certi altri no? Come mai i ragazzi, con certi adulti, si permettono certe cose e con altri no, senza che questi altri siano particolarmente colti o repressivi? I ragazzi che cosa cercano? Cercano una comprensione di queste cose dall’adulto. Hanno diritto ad avere la spiegazione di cosa succede nel loro corpo e nella loro anima. La sfera di intimità in cui questa comunicazione dovrebbe vivere secondo noi è quella della famiglia. Il genitore che ha disagio, difficoltà a parlare è perché non ha superato le sue problematiche legate all’argomento. Per arrivare a parlare di queste cose con naturalezza e con semplicità, è necessaria una elaborazione personale di quanto noi abbiamo vissuto in quei periodo, altrimenti tutto viene rimosso, si crea una rigidità dentro di noi riguardo a questa sfera e la gestiamo secondo regole alle quali ci adeguiamo senza più prendere coscienza di ciò che succede ai 12, 13 anni. Cancelliamo il ricordo di quello che abbiamo vissuto a quell’età, ci adeguiamo a regole e comportamenti e non siamo capaci di parlare ai ragazzi di questo.

Con le famiglie va fatto almeno un po’ il lavoro di suggerire come affrontare l’argomento. Certo, in alcuni casi il docente può sostituirsi alla famiglia e, in un rapporto personale, affrontare le parti più delicate, più intime.

I ragazzi percepiscono gli adulti che non hanno risolto quel problema, lo sentono.

Domanda: Come affrontare i momenti di grandissima depressione quando il bambino dice “Mi voglio suicidare”?

L’idea del suicidio è presente dai 12, 13 anni. Un bimbo di 12 anni si è impiccato la settimana scorsa. È andato a impiccarsi in bagno dopo aver visto una trasmissione alla televisione che trattava la pena di morte nel mondo.

Ha chiesto al babbo se si soffriva tanto con l’impiccagione, non sappiamo cosa gli sia stato risposto, ma mezz’ora dopo lui era appeso in bagno.

Questa domanda è sempre seria. È un momento in cui nel processo di incarnazione dell’io, l’io intuisce e porta nella coscienza del bimbo ciò che sarà il suo compito nella vita, si rende conto del mondo in cui è e delle difficoltà che dovrà superare, di quanto questo mondo non sia adatto a realizzare il suo compito.

Si chiede: “Ne vale la pena o poniamo fine a tutto?”

Questa è la domanda, serissima, in cui nel processo di incarnazione prendono atto per la prima volta, con occhi propri, con coscienza propri, di come stanno le cose, di cosa li aspetta.

Questa domanda non è presente in tutti, non è in tutti così intensa. I bimbi più sensibili, in genere ce l’hanno più urgente perché sentono più fortemente la durezza, la rigidità del mondo fuori, gli ostacoli che dovranno superare. È una domanda da prendere seriamente in considerazione.

L’oscillazione tra depressione e esaltazione è quanto i ragazzi vivono come altalenare della propria anima, che scopre nuove potenzialità in questa esplosione di vita segnata dalla nascita del corpo astrale, ma rispetto alle quali si sentono inadeguati, incapaci.

La depressione viene da questo stato dove si hanno tante forze, tante energie, tante idee ma ci si sente falliti, incapaci di dar corpo, forma, ritmo (nel tempo e nello spazio) a tutte le forze, energie e idee che si hanno.

È proprio legata a questa fase, a questa età: la presa di coscienza di come è il mondo.

Talvolta il motivo occasionale di un suicidio di adolescenti è un semplice insuccesso scolastico, una sgridata. Ma bisogna considerare quando arriva quella sgridata, dove arriva, su quale stato d’animo? Arriva sull’accumulo di una serie di vissuti di insuccesso, “Io non sono capace di fare niente”. “Confermato!” “L’ultima goccia che fa traboccare il vaso”. “Mia madre non mi accetta, mi respinge, non mi capisce, e io sono un fallito”.

Ciò che dovremo riuscire a fare è, sdrammatizzare ciò che loro vivono. Con Umorismo. Se all’aggressione rispondiamo con l’aggressione abbiamo perso.

Quanti fallimenti, purtroppo, dobbiamo collezionare, perché siamo umani anche noi e talvolta all’aggressione rispondiamo con l’aggressione, con durezza, con forza. Ma la risposta giusta é sdrammatizzare con umorismo, far ridere i ragazzi, cogliere l’aspetto che é dentro i ragazzi e trasformarlo in battuta. In IX classe chi non sa fare questo farebbe meglio a dedicarsi ad altre età, perché questa è l’arte dell’educazione in IX classe.

Gli adulti devono avere serietà, rispetto, devono accompagnare i ragazzi, ma anche relativizzare, sdrammatizzare, far ridere, saper far vedere la dimensione di certi drammi, non per disprezzare, non perché il ragazzo si senta deriso e disprezzato (come potrebbe facilmente accadere, perché il confine tra ironia e sarcasmo può essere sottile); quello che si vuole fare è invece ridimensionare e “volgere in battuta”, coinvolgere il ragazzo e farlo ridere.

Disprezzare diventa un elemento della pericolosa catena dei “non sono capito”, “nessuno capisce i miei problemi”. Invece con l’umorismo noi diciamo: “Ti capisco, ma guarda che c’è anche dell’altro!”.

Questa è una chiave importante dell’esercizio del rapporto di autorità; si diventa ancora più rispettati e accettati se si riesce a far vivere questi momenti di sdrammatizzazione, di allentamento delle tensioni che sentono dentro, se si riesce a mettere il tutto in positivo.

Vale anche per i momenti depressivi, dove in genere c’è un mollare tutto sul piano della fiducia nella possibilità di cose e momenti positivi. A quell’età l’anima del ragazzo oscilla naturalmente, per cui inspiegabilmente lo ritroviamo un’ora dopo a fare progetti esaltanti. Perché la cosa non diventi unilaterale occorrono attività che diano fiducia al ragazzo, che gli facciano capire che può riuscire, che può riconquistare quelle capacità che gli sembra di aver perso. Continuerà a dire che è un fallito ma, per esempio, il risultato ottenuto nel disegno in bianco e nero, nella creta o nel legno o in altre cose sarà un punto in attivo dentro di lui (“il bilancio non è tutto negativo, lì anche il maestro ha detto che…”). In casa aiuta il coinvolgimento in attività individuali adatte, che possano motivare, trovare un campo di realizzazione.

Un elemento da curare un po’ di più è proprio quello di una sana socialità in cui i ragazzi possano avere anche degli spazi, dei momenti da soli.

Ci sono genitori che escono e lasciano la casa ai dodicenni per la festa serale. Questi sono delitti, sono errori gravi! Tutti assieme, anche di là in sala, due ore, ballate, fate quello che volete ma poi, ad una certa ora, a casa, a nanna; c’è il ritmo del sonno da salvare.

E quando chiedono di uscire con gli altri perché tutti escono? “Io sono l’unico che non esce”. Chiaramente non si può chiudere a chiave il ragazzo di quest’età. Va discusso, motivato e posto un limite preciso: dove, con chi, cosa si fa, a che ora si ritorna. Su questo bisogna essere chiari e non barattare, non farne oggetto di scambio. “Se fai questo o quello puoi stare in giro mezz’ora in più”. No! L’ora deve essere quella.

Contrattiamo su tante altre cose, ma non su questo, e i ragazzi ci rispetteranno e ci stimeranno. Se si comincia a cedere ai ricatti è finita, l’autorità è finita. Ci sono cose su cui si danno informazioni, si spiegano e si rispiegano, con rispetto, facendo sentire al ragazzo l’amore con cui si fa questa scelta. Il dolore del ragazzo lo si capisce e lo si condivide, ma rimane la scelta. Attraverso questo passa l’educazione anche della volontà.

Se i bimbi non sono gioiosi e s’intristiscono bisogna preoccuparsi, mentre se non si intristiscono, paradossalmente bisogna preoccuparsi ugualmente, vuol dire che sono delle oche o degli “ochi”, che non stanno affrontando le tematiche del loro tempo; devono passare attraverso la solitudine, la tristezza, la disperazione, il pensiero del suicidio (e speriamo non la pratica!), devono lasciarsi alle spalle il clima solo gioioso, positivo, di vita immaginativa, di sentimento, dove si lavorava e si vivevano tutti i processi di crescita nella gioia. È una tappa necessaria del “diventare uomini”.