Il nono anno di vita, sentimento del proprio Io e solitudine, distacco dal mondo e paura

S.Michele 2004

 

Cari genitori,

ho cercato di focalizzare l’attenzione sul “nono anno”, età a cui si stanno avvicinando i bambini della nostra classe (3a).

Il nono anno è un momento importante nel processo di identificazione di sé, sperimentato profondamente dal bambino nella propria vita di sentimento.

I bambini si “distaccano” dal mondo e si rapportano con esso in una nuova, anche se ingenua, prospettiva. Questo momento comporta un cambiamento nella proposta di contenuti, più vicini alla concretezza della vita, ma ancora lontani dai fatti scientifici freddi e aridi.

Il processo di separazione, la percezione della propria anima e della propria individualità, “la perdita del paradiso” comportano contemporaneamente sentimenti di solitudine e di paura, fattori comunque necessari per lo sviluppo della strutturazione dell’Io.

In questa fase occorre una delicata e amorevole attenzione.

La paura è sì uno stimolo, ma può diventare anche un acerrimo nemico. Può restringere il campo visivo, indurire il cuore, con una conseguente ricerca di sicurezza nel potere, nel controllo della realtà; può creare rigidi schemi di comportamento o di giudizio che trasformano la vita in una prigione buia e solitaria. La trama della vita può diventare quella di una tragedia shakespeariana (Romeo e Giulietta) dove la dinamica del potere prevale e dissolve quella della compassione e dell’amore.

Diventa sempre più necessario quindi, oggi più che ieri, cercare di avere chiarezza sul bisogno di protezione del bambino, per aiutarlo ad affinare gli strumenti del superamento; nello stesso tempo occorre anche intraprendere, nella nostra coscienza, un viaggio di liberazione dalle proprie paure.

Su questi temi, in parte oggetto di riflessione nel week-end in cui abbiamo lavorato insieme, vi propongo queste pagine, con l’auspicio che possano essere di aiuto a noi tutti, per i nostri bambini.

Andrea Scicchitani

 

IL NONO ANNO DI VITA
sentimento del proprio Io e solitudine, distacco dal mondo e paura

Introduzione
Ricordi di alcune mamme
Trasformazione a nove-dieci anni
Sviluppo della coscienza dell’Io durante l’infanzia
Il nono anno nelle biografie: Dante Alighieri e Heinrich Schlieman
Il lavoro a scuola, nella terza classe
Le paure infantili nella prospettiva della teoria dell’attaccamento
Paura nell’infanzia e suo superamento
Sulla nascita della paura
Sull’Io dell’uomo

 

Introduzione

Rudolf Steiner ha coniato per questo importante e delicato momento di trasformazione il termine “passaggio del Rubicone”; evoca un’immagine presa dall’antica storia romana, le gesta di Giulio Cesare. Ora il bambino attraversa una soglia dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, proprio come Cesare quando attraversò il Rubicone. Nella storia romana coincide con la fine dell’antica Repubblica, per il bambino è la cesura con “il mondo antico”, il mondo delle fiabe, un mondo dove tutto era intimamente connesso e di cui si sentiva parte, a cui si sentiva profondamente unito.

Per cogliere ciò che il bambino sente a questa età, noi adulti potremmo cercare di immaginare il nostro essere immerso in una beata coscienza sognante, dove tutto è tinteggiato con tenui colori pastello, popolato da esseri diafani e, improvvisamente, ci si desta ad una realtà che si manifesta nella sua materiale concretezza. Il bene e il male non sono più parti collegate tra loro da un unico progetto vitale; il bene viene separato dal male e si contrappongono. Dobbiamo immaginare che venga a manifestazione una nuova realtà dove si evidenzia una sorta di dualismo e ci accorgiamo che siamo, noi pure, altro di questa realtà, un polo della dualità: Io-Mondo, Io-Mamma, ecc. Non siamo più partecipi all’interno di un sogno, ma è come se il sogno si dipanasse, come un film, di fronte ai nostri occhi, con la possibilità di prendervi parte.

 

Ricordi di alcune mamme

Mariangela: Alla tua domanda “Cosa ti ricordi del III e IV anno di scuola di tuo figlio?”, non ho avuto dubbi, la risposta immediata è stata “Sono iniziate le paure”. Quali? Innanzitutto la paura più folle era la paura dei ladri. Pur non essendo un bambino che vedesse televisione, telegiornali o giornali con notizie di cronaca nera, che potevano condizionare il suo stato d’animo, per lui la paura che qualcuno si introducesse in casa sua diventò un incubo.

Da qui tutto quello che ne conseguiva: non entrava mai per primo in casa e prima che lui si trovasse a suo agio io dovevo ispezionare tutta la casa per verificare che nessuno si nascondesse da qualche parte. Così anche la sera in camera sua dovevamo controllare che nessuno si fosse nascosto (es. le tende non dovevano essere chiuse perché dietro si poteva nascondere qualcuno!!).

Non andava più in bagno o in qualsiasi altra parte della casa da solo.

Prima esigeva che io o mio marito lo accompagnassimo, poi a lungo andare quando vide che noi ci scocciavamo pensò bene di “utilizzare” sua sorella, così la trascinava con sé ovunque, oppure convinceva lei ad andare a prendergli la tal cosa in un’altra stanza.

Con il passare del tempo questo diventò, non solo paura dei ladri, ma paura di tutto e di tutti (non identificabile). Tutto ciò per lui era un handicap ed inoltre se ne vergognava molto.

Tutto questo avvenne durante la IV e V classe, in ritardo rispetto ad alcuni suoi compagni che già in III classe manifestavano (a dire delle loro mamme) paure immotivate e incomprensibili.

Quando poi in V classe cambiammo casa, la situazione ebbe un peggioramento: ambiente nuovo, maggiori preoccupazioni!!

Un altro cambiamento di quest’epoca è quello che M. indicava come “MAMMITE” cioè crisi di mancanza della mamma.

Mentre prima era sempre stato sereno a scuola, durante quel periodo mi raccontava che quando era in classe sentiva la mia mancanza, avrebbe voluto essere lì ma con la mamma vicino (nascosta, possibilmente, perché si vergognava).

Per questo particolare, il medico mi diede un prodotto omeopatico che lui diligentemente prendeva volentieri, anzi quando io me ne dimenticavo lui me lo ricordava “mamma mi devi dare la medicina per la mammite” e se lo portava a scuola.

Il bello, di tutto questo, era che io e le altre mamme di questa scuola eravamo pronte (o quasi!!) a questi cambiamenti ed eravamo coscienti che erano di passaggio e fisiologici. Molte volte mi sono chiesta “Se fossi stata in un’altra scuola, vedendo mio figlio così, avrei pensato ad una regressione, come avrei reagito? Avrei pensato che fosse da psicologo?!?!”

Devo però aggiungere che con l’altra figlia questo momento non è stato così evidente. C’è stato, ma è passato un po’ in sordina.

Rossella: Come promesso, ti invio i miei ricordi del nono anno di F. Le sue paure riguardavano principalmente il rapporto con la madre e il padre. Era assolutamente terrorizzato all’idea che potesse accadere qualcosa di male a me o al papà e gli allontanamenti erano problematici. F. ricorda che, tutte le volte che i genitori erano in ritardo, pensava che fosse accaduto un incidente e quando sentiva la sirena di un’autoambulanza andava in ansia. La situazione era piuttosto tesa e problematica perché F., in quel periodo, stava veramente male ed era difficile, data la sua giovane età, potergli dare un aiuto diretto in quella situazione. Gradualmente poi le cose sono migliorate ed è riuscito, molto lentamente, ad avere più fiducia.

Maria Grazia: Proprio quando a scuola, in III, il programma prevedeva la costruzione della casa, M. cominciò ad avere una paura boia dei ladri.

Mi ricordo situazioni in cui non cambiava stanza senza accendere tutte le luci; prima di dormire mi costringeva a girare tutta la stanza con lui e a controllare che la porta di casa fosse chiusa a chiave. Prima di entrare in casa suonava il campanello:”così se ci sono i ladri scappano!”, diceva. Entrava in casa spingendo avanti il fratello (di due anni e mezzo più piccolo) come a cercare protezione e coraggio da lui che, ignaro del pericolo e ancora lontano dalla crisi del nono anno, entrava tranquillamente.

Mi ricordo anche di un colloquio con il maestro Andrea in un bagno della scuola, mentre lo pulivo in occasione di una festa. Io preoccupata: “E’ il caso di portarlo da uno psicologo?” e lui: “Ma no, è normale. La casa rappresenta la sua corporeità e M., ora che ha perso la fiducia nell’onnipotenza dell’adulto, si sente minacciato. E’ come la cacciata dal Paradiso. Ora sente che deve poter contare sulle sue forze e ne è spaventato.”

Caterina: …a pensarci bene sembra ieri che G. aveva più o meno questa età, ma ne sono passati quasi il doppio. Oggi è un sedicenne. Eppure, proprio ieri a scuola, durante la cerimonia d’accoglienza per la nuova prima classe, osservando i bimbi che si avvicinavano con in mano una rosa a salutare la loro futura maestra, i miei ricordi si sono fatti subito strada.

Così ogni volta che vengo a scuola e guardo i bambini nelle varie classi rivedo G. nel percorso che anche lui ha fatto in maniera meravigliosa in questa scuola.

E’ sempre stato un bambino tranquillo, un po’ meno oggi; non ha mai avuto reazioni particolari durante il passaggio dei vari settenni. Ricordo però alcune sue paure. Andare a spasso insieme era una vera e propria tortura per me e per suo padre. Voleva essere tenuto per mano sempre in modo…come dire… “stretto” e se per distrazione la stretta si faceva leggera, lui ci richiamava all’ordine: “mamma, papà, stringi forte.”

Aveva paura, guardava la gente con diffidenza e non riusciva, per questo motivo, a godere della passeggiata. Io e suo padre non sapevamo come fare

Un giorno pensai che andare sui mezzi pubblici dove c’è molta gente poteva aiutarci a fargli capire che, a stare insieme a persone che non si conoscono, non c’è nulla di cui aver paura. Ci siamo riusciti, un po’ per volta.

E che dire della sera, quando era ora di andare a letto? Passava in rassegna tutta la camera, guardando accuratamente in ogni angolo e, quando finalmente tutto era stato controllato, non prima di aver fissato la porta perché restasse sicuramente aperta e la luce accesa, ecco che si infilava sotto le coperte, pronto per recitare la poesia.

Fu in quel periodo, frequentava la IV classe, che morì la nonna. In quell’occasione, durante il rito funebre, rimase a casa con una zia e una cuginetta; si mise a piangere a dirotto e disse alla zia: “Ho paura che la mamma se ne vada con la nonna.”

Marina: G. è stata fino al suo ingresso a scuola una bambina molto tranquilla e serena; in casa raccontava molto di sé, ma fuori era più portata ad osservare e contemplare ciò che le accadeva intorno.

I primi due anni di scuola erano trascorsi serenamente: silenziosa con i compagni e con gli insegnanti mentre in famiglia rielaborava, con grande ricchezza di particolari e molto divertita, tanti fatti della sua vita scolastica.

Verso la fine del secondo anno scolastico però, in seguito ad un malessere, improvvisamente cambiò l’atteggiamento di G.verso la vita: durante il viaggio di ritorno da scuola, un giorno, una forte nausea la costrinse a vomitare e, se fino ad allora durante le malattie il suo comportamento era sempre stato di accettazione serena degli avvenimenti e di fiducia, da quel momento, lo ricordo con grande lucidità, le cose cambiarono. Oltre ad un nuovo rapporto con la malattia, che definirei ansioso, senza una ragione che potesse giustificare questa preoccupazione, G. cominciò ad esternare la paura che il padre potesse morire. Accadde per un certo periodo quasi tutte le sere. Io allora lavoravo nella scuola e la sorellina aveva cominciato a frequentare l’asilo. Probabilmente ci sentiva vicine durante la sua giornata scolastica mentre il padre era atteso con ansia alla sera; l’apprensione aumentava con il calare della luce durante il tramonto.

Altre paure, fino ad allora sconosciute, iniziarono a manifestarsi.

Da quando aveva acquisito la sua autonomia nell’andare in bagno, lo faceva con totale spensieratezza; poi, l’ingresso a quel vano, divenne improvvisamente un punto oscuro che non poteva più essere attraversato da sola, alla sera. Aveva bisogno di essere accompagnata e anche la sorellina andava bene, tanto più che la piccola si prestava volentieri a farle da mammina, ridendo di quelle paure.

Iniziai, ad anno scolastico concluso, ad occuparmi di queste trasformazioni e il medico mi parlò subito di “nono anno”.

Mi ricordai allora di aver letto molto tempo prima, nei testi di pedagogia, di questo momento evolutivo del bambino e cominciai ad osservare tutto con altri occhi.

Durante il terzo anno scolastico fu molto interessante affrontare questa tematica con tutti gli altri genitori della classe; indipendentemente dal temperamento o dalla situazione familiare, i bambini, se osservati attentamente, manifestavano, in modo diverso, nuove e improvvise paure o preoccupazioni.

Fu impegnativo accompagnare G. in questa fase della sua vita, ma la consapevolezza di ciò che stava vivendo e la condivisione con gli altri genitori, furono di grande aiuto.

Tutto ciò si è ripresentato, puntuale come un orologio, con la mia secondogenita in terza classe, ma con modalità ancora più intense e faticose.

Ora le mie figlie hanno rispettivamente 16 e 12 anni:di quelle paure e sensazioni hanno fatto un bel bagaglio di vita e dentro di loro vivono sicuramente ancora, anche se con altre modalità, poiché tutto si trasforma. Fondamentale è stato sicuramente come io e il loro papà siamo stati loro accanto, per accompagnarle in quei momenti.

Qualcuno mi aveva dato allora un consiglio (non ricordo chi): nei momenti di grande ansia delle bambine e soprattutto prima del sonno notturno, è possibile rassicurare ogni bambino, ricordandogli che il suo Angelo non lo avrebbe abbandonato mai.

Con le mie figlie ha funzionato sempre e sicuramente il pensiero di quella presenza rassicurava anche me.

Trasformazione a nove-dieci anni

“…I materialisti sorvolano con facilità sulle cose, ma avendo il senso per una reale osservazione del bambino si vede come fra i nove e i dieci anni si verifichi in ogni singolo qualcosa di strano. Il bambino diventa esteriormente un po’ irrequieto. Non è a suo agio col mondo esterno. Sente qualcosa, come se dovesse diventare timido. Si ritira un po’ dal mondo esterno.

Dobbiamo osservare questo fenomeno, poiché nel sentimento del bambino sorge una domanda straordinariamente importante. Egli non potrebbe trasformare tale domanda in concetti, non potrebbe esprimerla con le parole. Tutto è sentimento: tanto più forte è il sentimento, tanto più intensamente se ne deve tener conto.

Che cosa vuole il bambino a quell’età?

Fino a quel momento egli ha rispettato l’educatore, il maestro, seguendo una forza naturale. Ora egli sente che l’educatore deve mostrargli in qualche modo di essere degno di rispetto.

Il bambino diventa incerto, ed è necessario che proprio allora, osservando il fenomeno, il maestro ne tenga conto nel suo comportamento. Per mezzo di una particolare espressione di amore nelle nostre azioni, cercando di ascoltare profondamente il bambino, confortandolo, avvicinandoci a lui con grande sensibilità, in modo che il bambino si accorga che l’educatore gli vuole bene e gli muove incontro, possiamo condurre il bambino fra i nove e i dieci anni a superare lo scoglio.

E’ di grandissima importanza per tutta la sua vita futura che glielo facciamo superare, perché tutta l’insicurezza che rimane allora al bambino è poi insicurezza per il resto della sua vita. Quella insicurezza, che si imprime nel suo carattere, nel suo temperamento, nella sua salute fisico-corporea, viene più tardi a manifestarsi…” ( Rudolf Steiner, “Vita spirituale del presente ed educazione”, pagg. 122 – 123)

Sviluppo della coscienza dell’Io durante l’infanzia

“…Il successivo passaggio nello sviluppo dell’autocoscienza si manifesta verso il nono-decimo anno, in modo completamente diverso. L’io questa volta si sperimenta non nella volontà, ma nel sentire, non in una esperienza di forza, ma al contrario in un sentimento di debolezza, insicurezza, abbandono, persino timore e ansia. Il bambino, che sino ad ora si era sentito portato e protetto dal mondo circostante, diventa ora cosciente in un modo nuovo e più chiaro del suo contrasto con il mondo. L’autorità dell’adulto non è più data per scontata. Sorgono i primi atteggiamenti di critica, che i genitori e gli insegnanti percepiscono chiaramente. In questa critica presa di distanza l’io sperimenta se stesso, nella debolezza e nella solitudine. Non ha ancora la forza di confrontarsi veramente da solo con il mondo.

Rudolf Steiner ha parlato spesso del significato del nono-decimo anno, e ha sottolineato che in questa messa in discussione dell’autorità, deve rimanere almeno una persona nella quale il bambino possa continuare ad avere totale fiducia. Se questa persona non c’è, resta una debolezza interiore che agisce nel prosieguo della vita. Ciò di cui il bambino ha bisogno è in fondo un elemento paterno, che non deve essere necessariamente rappresentato dal proprio padre. Può essere la madre, o un insegnante, o qualsiasi altra persona sulla quale il bambino sappia di potersi appoggiare.

Il delicato momento di sentimento che caratterizza l’esperienza animica del bambino di nove anni, rende possibile anche un’interiorizzazione cosciente del mondo circostante, che può manifestarsi in brevi poesie, in una sorta di lirica della natura.

Una ragazzina di nove anni, molto dolce e brava, una mattina a colazione fissò a lungo pensierosa la madre e disse infine: “Mamma, effettivamente sei un po’ grassa!” Un giudizio simile non sarebbe mai venuto in mente a un bambino più piccolo, per il quale la mamma è semplicemente la mamma e non può apparire diversa da come è. Ora, con un distacco maggiore dal mondo, il bambino sperimenta questa nuova conoscenza, e “critica” l’aspetto della madre, fino ad allora perfetto sotto ogni punto di vista. La stessa bambina durante le vacanze estive nello stesso anno, scrisse brevi poesie in cui cercava di esprimere in modo ingenuo, ma sentito, ciò che sperimentava nei fiori e negli insetti. Questa facoltà andò subito perduta, e sarebbe stato sbagliato sottolinearla e stimolarla. Per quanto queste poesie fossero commoventi e piene di umanità erano tuttavia l’espressione di un impulso anticipato, che si potrà sviluppare con forza solo più tardi se non viene tirato fuori ora precocemente.

La labilità e la delicatezza dell’esperienza psichica si estendono allo stato di salute. Tutti i fenomeni fortemente fluttuanti come i mal di testa, i mal di pancia, le palpitazioni, ecc. che abbiamo già descritto come “mal di scuola” raggiungono ora il culmine. Gli autori inglesi parlano anche di “sindrome periodica”, evidenziandone in tal modo il carattere alternante-oscillante. Gli stessi autori esprimono l’ipotesi che tutte queste manifestazioni, per quanto diverse fra loro, possano avere la stessa causa, altrimenti non potrebbero alternarsi l’una con l’altra. Ma qual è questa causa comune? Essa sta nella descritta labilità interiore del bambino, che culmina verso il nono anno. Le pressioni del mondo esterno, come l’eccesso di stimoli sensoriali, la rottura di legami familiari, l’eccessiva richiesta scolastica, non sono la vera causa, sebbene agiscano come elementi scatenanti. Essi non potrebbero avere una simile azione patologica se non incontrassero l’io del bambino in uno stadio in cui è privo di protezione e non può ancora elaborare completamente questi influssi.

Di nuovo dobbiamo dire: la soluzione non può essere quella di spingere questo impulso all’autonomia in quanto tale, poiché esso è ancora troppo precoce. Si provocherebbe solo un aumento della pressione. Il vero e proprio principio educativo di questa età, l’autorità, deve affermare la propria forza anche in questa situazione di crisi, e deve esserci “almeno una persona” che resti immune alla critica che si è destata. Come un giovane alberello riesce appena a stare diritto, e potrebbe venire piegato dalla tempesta se non avesse un palo di sostegno, così anche il bambino può conseguire una stortura nello sviluppo della propria personalità se ora non trova almeno una persona a cui appoggiarsi…”(Walter Holtzapfel, “Il significato delle malattie nei primi tre settenni”, pagg.81-83)

Il nono anno nelle biografie: Dante Alighieri e Heinrich Schlieman

“Dalle biografie delle grandi personalità possiamo apprendere molto riguardo al nono anno. Vediamo come in quel momento si preannunci il tema, il motivo conduttore della vita.” (Hermann Koepke,” Il nono anno”)

In tarda età, per l’uomo, accade sovente di riguardare la propria vita. Nel susseguirsi storico degli eventi, egli comincia a comprendere come essi siano collegati in un modo piuttosto che in un altro. Nelle persone che hanno un dono particolare per questo genere di retrospettiva, si sveglia la necessità e il desiderio di scrivere le proprie memorie.

Victor Hugo, nella prefazione ad una sua opera matura, scrisse: “Ad un certo momento della vita, per quanto si sia occupati per l’avvenire, il desiderio a guardare indietro è irresistibile.”

Risulta spesso evidente come il vissuto e gli accadimenti durante l’infanzia siano stati premonitori di realtà che si sono dipanate nel corso della vita e, in ogni caso, quanto l’infanzia sia stata fondamentale nella biografia individuale.

In particolare, per comprendere la corrispondenza fra la prima e l’ultima età della vita, Rudolf Steiner enuncia il seguente esempio: “Colui che nella sua infanzia ha imparato a pregare, in vecchiaia avrà il potere di benedire; egli stesso diventa una benedizione per chi lo circonda.”

Jacob Grimm scrive nella sua autobiografia: “Le persone anziane ritornano volentieri, allorquando i lavori o le preoccupazioni non le assorbono più, alle occupazioni favorite dalla giovinezza; curano i fiori, un uccellino e riaprono i libri che le necessità della vita avevano chiusi.”

Il sommo poeta Dante Alighieri (1265-1321) è un bambino di nove anni quando, in un vicolo di Firenze, ha un incontro fuggevole con Beatrice, sua coetanea. L’impressione di quell’istante ha nel bambino un’azione molto profonda. Nella “Vita Nuova”, Dante descrive quella esperienza come uno stato che va oltre la coscienza del momento, egli sente nella sua interiorità delle voci che gli parlano. “Da allora innanzi dico che Amore signoreggiò la mia anima.”

Non la rivide per altri nove anni e, dopo altri fugaci incontri, all’età di ventiquattro anni, Beatrice morì. Ne “La Divina Commedia”, la cui composizione venne iniziata da Dante a circa 40 anni, è Beatrice che conduce il poeta nel Paradiso.

Heinrich Schlieman (1822-1890) vive l’infanzia nel Meclemburgo, in Germania. Il padre, pastore evangelico, gli racconta episodi di storia antica. L’immagine di Enea che fugge da Troia in fiamme, con il vecchio Anchise sulle spalle e il figlioletto per mano, colpisce profondamente il piccolo Schlieman. All’età di nove anni, insieme a Minna, amichetta sua coetanea, decide di scoprire la divina Ilio. A quel tempo si pensava che le vicende cantate da Omero fossero frutto di poetica fantasia. A diciannove anni si trova ad Amburgo, deciso a salpare per l’America in cerca di fortuna. Vende il suo unico pastrano e compra una calda coperta di lana per difendersi dal freddo durante la traversata. Su un brigantino, dopo poco, in mare aperto, comincia una tempesta; la nave sprofonda e il giovane, sballottato per ore tra ondate furiose, viene gettato su un banco di sabbia, emerso con la bassa marea, lungo le coste olandesi. Viene tratto in salvo mentre è tormentato dai più atroci dolori: due denti spezzati e il corpo cosparso di profonde ferite. Rifiuta di tornare in Germania. Trova di

che sopravvivere e intanto, da autodidatta studia le lingue straniere. In tre anni impara inglese, francese, olandese, spagnolo, italiano, portoghese e russo. In età matura conoscerà una ventina di lingue, compreso il greco antico, scritto e parlato. Grazie a questa familiarità con le lingue inizia a lavorare per una ditta di esportazioni commerciali. E’ ventiduenne. Dopo pochi anni decide di lavorare in proprio. Viaggia, dalla Russia all’America, si reca in India, Giappone, Cina. Con i commerci accumula una immensa quantità di ricchezze che userà poi per le sue ricerche archeologiche. Nel 1873 scopre il tesoro di Priamo e alcuni anni dopo, a Micene, le tombe regali. Si realizza così il sogno di un bambino di nove anni.

Il lavoro a scuola, nella terza classe

Gli anni che coinvolgono il bambino nel “passaggio del Rubicone” sono quelli relativi alla terza e quarta classe. Precedentemente si viveva ancora nel grande castello della fantasia, intimamente compenetrata dalla realtà, dove fiori e animali, sole e luna, vento e neve, chiacchieravano amenamente. Era un mondo dove il bambino non conosceva separazione e insicurezza. Ora comincia a sentire che non si muove più con il mondo, bensì nel mondo. Desidera conoscerlo, entrarci, farne parte più “consapevolmente”, ma preme in lui anche un sentimento di paura legato alla percezione della propria individualità e al conseguente sentimento di solitudine. Si rende conto che sta crescendo, che il tempo passa, si muore e la vita si aspetta qualcosa da lui. Gli educatori ora hanno il compito di curare la relazione Io-Mondo in modo che il bambino, crescendo, possa trovare nel suo intimo una risposta alla grande domanda: “qual è il mio posto in questo mondo?”

Un notevole sostegno, per il bambino di questa età, è presente nella narrazione, che concerne in primo luogo le storie dell’Antico Testamento, con le sue possenti immagini. Nella storia del popolo ebraico viene riflessa la situazione animica dei bambini che si apprestano a passare il “Rubicone”. Nella cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso abbiamo un riverbero del distacco del bambino dal mondo delle fiabe. Adamo ed Eva arrivando sulla terra hanno la comprensione di ciò che è bene e di ciò che è male; assumono quindi delle responsabilità nella nuova realtà. Dio non li ha abbandonati, ma lascia loro la libertà di ricollegarsi a Lui. Dalla cacciata dal Paradiso fino alla deportazione in Babilonia, è possibile rivivere il progressivo distacco dell’uomo dal mondo spirituale (il mondo delle fiabe). La ricerca della Terra Promessa è irta di difficoltà, ma Dio non ha abbandonato gli uomini; l’apparire in cielo dell’arcobaleno ricorda l’Alleanza. Con i Profeti giunge poi la promessa del Messia, a indicarci una nuova direzione per riprendere il contatto con il mondo spirituale.

Uno dei punti centrali della narrazione è la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto, sotto la guida di Mosè. Il passaggio del Mar Rosso ridona in altra forma l’immagine del passaggio del Rubicone. L’anelito alla Terra Promessa, negli anni del Deserto, manifesta le difficoltà che si incontrano nella ricerca del proprio Io nella vita.

La figura di Mosè evidenzia un nuovo modello di autorità. Mosè può guidare il suo popolo in virtù dei consigli che riceve direttamente da Dio; gli Ebrei sanno che Mosè parla direttamente con Lui.

Abbiamo qui un grande insegnamento. Gli educatori, se vogliono continuare a godere di autorevolezza, devono far sentire che c’è qualcosa di elevato sopra di loro, ci sono grandi ideali a cui tendere, c’è un mondo spirituale a cui tenersi collegati. I bambini devono sentire che i propri educatori sono degni di autorità perché loro stessi si sottopongono a qualcosa di più grande, cercano ispirazione negli esseri spirituali, si occupano di qualcosa di profondo, di vero, di importante per la vita. Solo in presenza di un tale sforzo, i bambini sapranno accettare tutti i difetti degli adulti che li accompagnano e accoglierli come guide.

Ora il bambino, sperimentando la separazione, compie un’enorme salto nel processo di identificazione, percepisce la propria anima, si sente una individualità.

E’ questo il momento più adatto per portare la scrittura in corsivo, una scrittura più personale, una scrittura attraverso la quale si può manifestare la propria individualità. I grafologi riescono a leggere nelle diverse tipologie di scrittura alcune caratteristiche degli autori delle stesse.

Con il distacco del bambino dal mondo, cresce la curiosità e l’interesse per l’ambiente circostante. E’ ora possibile fare delle uscite nel quartiere intorno alla scuola, guardare le case e dagli stili architettonici, rilevare le differenze tra le nuove abitazioni e quelle del passato; può capitare di vedere un vecchio mulino, di visitare una fornace o il laboratorio di un fabbro, la bottega di un ciabattino e allo stesso modo parlare del lavoro e dei mestieri: il lavoro dei propri genitori, dei propri nonni e dei mestieri di un tempo.

I bambini fanno anche delle esperienze concrete: coltivano l’orto, costruiscono dei muretti o delle casette, macinano il grano e fanno il pane.

In questa fase si inserisce l’insegnamento delle misurazioni, poiché in ogni attività si presenta necessario il loro utilizzo.

Nella costruzione della casa, l’architetto esegue i rilevamenti del terreno, decide poi la forma, il perimetro, l’altezza e la dislocazione delle singole stanze. Il muratore deve assecondare esattamente la descrizione delle lunghezze della nuova costruzione e accordarsi con il falegname che dovrà poi fabbricare porte e finestre della misura corretta per gli spazi predisposti alle aperture.

Il sarto prende le misure del proprio cliente per cucirgli un bel vestito.

Il contadino valuta quanta semente gli occorre per un certo appezzamento di terreno.

Il cuoco pesa quanto cibo gli occorre per soddisfare l’appetito degli invitati al pranzo di una grande festa.

Tutti poi misurano il tempo; si calcola il tempo che occorre per recarsi a scuola o al lavoro, per fare un compito o svolgere un’attività.

Si entra così in rapporto con le unità di misura (lunghezza, peso, capacità e tempo) ed è importante partire da ciò che si è potuto sperimentare concretamente.

Nel momento in cui il mondo, agli occhi del bambino, perde la sua unità, diventa importante cercare di ricomporre le parti. Come nella costruzione di una casa il bambino verifica l’unicità di un progetto a cui si uniformano e collaborano l’architetto, il muratore, l’idraulico, l’elettricista, ecc., allo stesso modo occorre che abbia la percezione che tutti gli elementi e gli esseri della natura partecipano, cooperando, alla bellezza del creato: radice-terra, fiore-sole, terra-pianta-sole.

Le paure infantili nella prospettiva della teoria dell’attaccamento

La moderna psicologia ha messo in evidenza come, durante la crescita, nei momenti di identificazione di sé, il bambino viva, tra le tante paure che si presentano, quella macroscopica della perdita delle persone a lui più care, la mamma innanzitutto.

“A un certo punto della loro vita, io credo, la maggior parte degli esseri desidera avere dei figli e desidera anche che i propri figli crescano felici e fiduciosi di sé. Per quei genitori che ottengono questi risultati le soddisfazioni sono grandi; ma per coloro che pur avendo dei bambini non riescono a crescerli sani, felici e fiduciosi di sé, le pene, sotto forma di angoscia, frustrazione,attrito, e forse anche vergogna o colpa, possono essere severe. Impegnarsi a fare i genitori significa perciò mirare in alto. Inoltre, poiché fare il genitore con successo è una chiave di volta per la salute mentale delle nuove generazioni, abbiamo bisogno di sapere tutto il possibile riguardo alle condizioni sociali e psicologiche che influenzano in senso positivo o negativo lo sviluppo di tale processo. Il tema è tra i più vasti e il mio contributo sarà quello di delineare l’approccio di pensiero che io adotto nei confronti di questi argomenti. Il mio è un approccio di tipo etologico. Prima di inoltrarmi nei dettagli, però, voglio fare alcune osservazioni generali. Essere genitore con successo significa lavorare molto duramente. Occuparsi di un neonato o di un bambino che fa i primi passi è un lavoro che impegna ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana, e che spesso crea molte preoccupazioni. E anche se il carico di lavoro si allevia un po’ man mano che i bambini crescono, se si vuole che crescano bene è ancora necessario fornire loro moltissimo tempo e moltissime attenzioni. Per molte persone oggi queste sono verità sgradevoli. Dare tempo e attenzioni ai bambini significa sacrificare altri interessi e attività. E tuttavia credo che le prove di quanto sto dicendo siano indiscutibili. Infiniti studi attestano che gli adolescenti e i giovani adulti sani, felici e fiduciosi in se stessi sono il prodotto di famiglie stabili in cui entrambi i genitori forniscono ai propri figli una grande quantità di tempo e di attenzioni…

…Una caratteristica del comportamento di attaccamento che ha grande importanza dal punto di vista clinico e si presenta indipendentemente dall’età dell’individuo in questione, è l’intensità dell’emozione che lo accompagna , il genere di emozione dipendendo a sua volta dallo stato della relazione tra le persone coinvolte. Se la relazione è buona , c’è gioia e un senso di sicurezza. Se è minacciata , c’è gelosia, angoscia, rabbia. Se è stata interrotta, c’è dolore e angoscia.

Infine esistono prove del fatto che il modello di comportamento di attaccamento che un individuo ha strutturato dipende dal tipo di esperienza che ha avuto nella sua famiglia d’origine, o, se è sfortunato, fuori di essa…” (John Bowlby, “Una base sicura”, pagg. 1-4)

“Spesso è proprio il vissuto della paura di un bambino che induce i genitori a cercare l’aiuto dell’esperto: per capire meglio di cosa si tratta, per ricevere indicazioni su come comportarsi, per essere rassicurato sulla normalità dell’evento, oppure per prendere coscienza che il proprio figlio ha qualcosa che esula dall’ordinarietà. Le paure sono del tipo più diverso: la paura del buio, la paura di stare solo in casa, la paura di uscire solo, la paura di esplorare l’ambiente esterno, il timore del traffico, la paura di stare o di andare con persone diverse dalla mamma o dal papà, la paura di parlare in pubblico, la paura di esibirsi, la paura di sbagliare, la paura di giocare con altri…Sempre, comunque, la paura è accompagnata da un penoso senso di impotenza che mette in risalto i propri limiti e obbliga a sperimentare una relazione di aiuto competente, per venire fuori dalla situazione…Nel corso delle sedute di psicoterapia con i bambini e con i preadolescenti, il sintomo paura è quello che appare più frequentemente nelle storie raccontate dai genitori o dagli stessi bambini, sia pure con un diverso focus per entrambi…La paura più grande del genitore – come genitore – è quella di essere causa della paura del figlio, come se a questo punto ritenga di non poter far nulla per aiutarlo a fronteggiare le sue paure e percepisca una sorta di fallimento di ruolo…

Il non essere all’altezza della situazione, letto attraverso i meccanismi di paura non risolti del figlio, attiva sensi di inferiorità che sono alla base di un circuito vizioso difficile da interrompere…La responsabilità del genitore, è importante sottolinearlo, non è tanto causa della paura del bambino, quanto fattore inefficace del sistema protettivo invocato dal figlio nel momento del bisogno. Il senso di solitudine davanti alla paura che il bambino sperimenta quando il genitore non è in grado di trasmettere sicurezza, funge da sistema rivelatore della propria fragilità emotiva-cognitiva. Il bambino non riesce a fronteggiare eventi di diversa natura e complessità, non per la loro gravità intrinseca, ma per la mancanza degli aiuti adeguati…Diventa allora essenziale comprendere più in profondità il mondo interiore del bambino, i mostri (le paure) che lo abitano, la plasticità con cui si nascondono, per riapparire nei momenti meno opportuni. In un certo senso le paure dei bambini sono tutte uguali, ma i danni che arrecano sono molto diversi, le conseguenze che lasciano hanno una infinita varietà di sfaccettature e i modi di ogni bambino per vincerle sono davvero peculiari. Dipendono contestualmente dalla struttura raggiunta dal suo Io, dai meccanismi di difesa che riesce ad attivare e dall’aiuto che trova nel contesto, dai messaggi di conferma che riceve o dalla svalutazione e banalizzazione a cui è esposto. E’ profondamente diverso, per esempio, che davanti alla paura del bambino il genitore intervenga svalutando il pericolo: “Suvvia non è nulla, non essere ridicolo, vedi che non c’è nessuno…” Oppure collochi il suo intervento nel processo di consolidamento del suo Io, aumentando la fiducia nei mezzi che il bambino ha a sua disposizione: “Puoi farcela, prova a controllare tu, lascia accesa questa luce…”

L’esperienza interiore della paura è per il bambino uno dei più efficaci fattori di apprendimento proprio perché lo induce alla ricerca di significati collegati tra di loro, in virtù della unicità dell’esperienza emotiva… Il significato che lui annette a queste esperienze è caratterizzato da quell’elemento unificante che è la percezione del pericolo incombente, la sensazione che la sua sicurezza stia per essere minacciata e quindi la necessità di disporsi a reagire per proteggersi. Difatti, il processo di crescita può essere identificato nella acquisita maturazione delle organizzazioni di significato. E tra i significati il primo che il bambino impara a cogliere è quello dell’attaccamento. Il suo benessere dipende dalla relazione con qualcuno che è in grado di farsi carico di lui e che è disponibile al momento del bisogno. In altri termini qualcuno che sa e che vuole aiutarlo a crescere con una relazione di aiuto competente. L’esperienza di questa relazione di aiuto fa da contrappeso all’esperienza costante e continua della sua precarietà e della sua indigenza. Il rapporto di attaccamento costituisce il nucleo centrale delle nostre preoccupazioni durante l’infanzia e le sue insicurezze irrisolte durano tutta la vita…La vera paura del bambino non sta tanto nell’intensità della situazione di pericolo che sperimenta, quanto nella consapevolezza che è lasciato solo a farvi fronte, perché la sua figura di attaccamento non è disponibile, o non è all’altezza della situazione…” (Paola Binetti, Flavia Ferrazzoli, Caterina Flora, “Ho paura”)

Paura nell’infanzia e suo superamento

“…Nel mondo voi avete tribolazioni, ma siate fiduciosi, là dove io sono, la paura viene sconfitta. (Vangelo di Giovanni, cap.16)

La paura è sempre legata a una perdita del senso di protezione, all’esperienza della separazione e dell’isolamento. In questo contesto, dal punto di vista psicologico, si è sempre richiamata l’attenzione sull’importanza del taglio del cordone ombelicale al momento della nascita. Quando il bambino cresce nel grembo materno si trova nella più pura condizione di protezione e sicurezza. Poi viene la nascita. Il bambino viene spinto e schiacciato fuori da questo contesto, in cui si è sperimentato nuotando, fluttuando, sognando, ed è collegato solo tramite il cordone ombelicale, che subito dopo viene tagliato. Il bambino è nel mondo, sperimenta il freddo, la luce, i rumori e la separazione. Quando poi viene preso in braccio, accudito, riscaldato, nutrito, curato, accarezzato amorevolmente, allora rivive la sensazione di protezione. La vita dei primi mesi scorre in un ritmico alternarsi di esperienze di separazione e di protezione. I momenti frequenti in cui il bambino viene allattato, fasciato e pulito, preso in braccio, lo fanno sentire protetto. Le necessarie pause tra questi momenti, in cui per lo più dorme, lo abituano al fatto di essere separato. Se l’esperienza del sentirsi protetto si ripete regolarmente, la separazione non viene collegata alla paura e il bambino acquisisce una familiarità con il fatto concreto di una propria esistenza individuale e dello stato di separazione che ne consegue. Nel corso del secondo anno di vita si completa il passaggio dal senso elementare di protezione, vissuto a livello fisico, a un senso di protezione più animico. La percezione dell’ambiente familiare e delle persone conosciute dà una sensazione di sicurezza e protezione, anche quando magari il bambino gioca da solo nella sua cameretta o addirittura mentre si allontana dalla mamma. Se tuttavia arriva una persona estranea, o se in casa cambia improvvisamente qualcosa, il bambino reagisce con paura e cerca rifugio nelle braccia della mamma o si reca nelle sue immediate vicinanze. Un avvenimento di questo genere può rendere evidente quali effetti abbia in genere la paura nella vita umana: rafforza in modo enorme la coscienza di sé. Quello che inizialmente, nell’esperienza della separazione, ricorda l’esperienza di se stessi nella differenziazione con l’ambiente circostante, viene ampliato dal fatto che ora si aggiunge il senso di insicurezza, di apprensione, e anche di paura di quanto è estraneo, forse pericoloso e sconosciuto. Nell’esperienza di questo avvicendarsi dell’insorgere della paura e dell’essere tranquillizzato nella protezione, sta il punto essenziale per lo sviluppo della coscienza di sé. Ritrovare il senso di protezione rafforza la fiducia nell’esistenza. Sperimentare e sopportare la paura rafforzano la coscienza di sé e la scoperta di sé in ciò che è diverso da sé. Si può addirittura dire che senza l’esperienza della separazione non sarebbe possibile l’esperienza del proprio sé e di conseguenza neppure della coscienza di sé.

Un bambino si trova, improvvisamente, durante una passeggiata, diviso dai genitori e solo, nell’affollato caos della strada. Il primo bisogno dell’io diventa la disperata ricerca dei genitori. E quale beatitudine viene sperimentata poi quando li ritrova!

Se la coscienza di sé è sviluppata a un punto tale che i bambini dicono”io” parlando di se stessi, allora l’iniziale paura dell’estraneo e della separazione è passata e con questo anche la paura connessa con la corporeità. Un bambino di tre, quattro anni non ha più bisogno della continua presenza fisica dell’adulto. Spesso si divincola per liberarsi già dopo un breve abbraccio, non vuole più starsene a lungo in braccio come un neonato. L’esperienza del senso di protezione si distingue sempre di più dal fisico e assume un carattere animico. Non si vuole più ad ogni costo toccare la mamma o il papà, vederli ed essere visti è sufficiente. E anche questo è importante. Bastano un paio di parole nel frattempo, un piccolo aiuto, e poi, i bambini possono di nuovo giocare per una-due ore. Quando sono in condizione di sopportare senza problemi la separazione dai genitori per una mezza giornata o una giornata intera, allora i bambini sono maturi per l’asilo.

Paura e coscienza

Possiamo distinguere tre diverse tappe:

la paura legata al corpo, che è connessa alla condizione di essere separati fisicamente e che può essere superata dunque solo attraverso un contatto fisico;

la paura più animica della separazione e di ciò che è estraneo, che può essere superata vedendo una persona familiare;

la paura vissuta nella coscienza pensante, quando per esempio il bambino trova a casa solo la sorella e allora domanda spaventato dove siano i genitori. Qui è di aiuto il pensiero: i genitori sono solo andati a fare la spesa, torneranno presto, e il senso di sicurezza viene ristabilito.

Questi tre stadi vengono vissuti da ogni essere umano nel corso dei primi tre anni di vita. Nella loro successione, essi mostrano una legge regolare, che nel corso della vita si ripeterà ulteriormente, a intervalli maggiori. Se prendiamo in considerazione la giovinezza, si può dire che in tutto il periodo prescolare prevale la paura legata al corpo connessa alla possibilità di trovare conforto nell’essere preso in braccio. Nell’età scolare fino alla pubertà hanno la prevalenza le paure più legate al sentimento: la paura di fallire, la paura di un nuovo insegnante, la paura dell’estraneo e dello sconosciuto. Questa paura viene mitigata con parole tranquillizzanti da parte di persone in cui si ha fiducia, attraverso uno sguardo incoraggiante e l’essere nelle vicinanze di persone amate.

Dopo la pubertà si affaccia la paura vissuta a livello cosciente-pensante. All’adolescente diventa chiaro che un giorno dovrà vivere assumendosi la propria responsabilità e che potrà trovare protezione e sicurezza nella propria vita solamente attraverso un’armonia con se stesso e dovrà fare affidamento sulle proprie forze. Il senso di sicurezza fisico o animico rimane incompleto se la coscienza pensante non partecipa a questo processo. Perciò il giovane cerca di elaborare con il pensiero la propria paura e di superarla da sé. Intraprende persino azioni spericolate, per dimostrare a se stesso di avere la capacità di superare la paura. Vorrebbe diventare padrone della paura e di se stesso in modo totale e consapevole.

Un undicenne , perciò, si lascia ancora consolare da parole affettuose, un sedicenne al contrario non ha più alcun bisogno di un’atmosfera consolatoria e di parole rassicuranti, che in fondo non riguardano la sostanza della questione. Ha bisogno di risposte, che contengano pensieri su cui si possa orientare e appoggiare.

Questa suddivisione in tre livelli può essere osservata anche pensando a tutto il corso della vita.

Nell’infanzia e nell’adolescenza, durante tutto il periodo della crescita, si è felici di avere una casa in cui si può sempre ritornare e dove qualcuno provvede al proprio benessere fisico. L’idea di dover fare tutto da soli, tutto ciò che ha a che fare con il nutrirsi e il vestirsi e con tutta l’organizzazione della vita esteriore, è ancora, fino alla gioventù, un incubo piuttosto che un’idea allettante. Si è contenti che la mamma o il papà si preoccupino ancora praticamente di tutto e rompono questi schemi solo i giovani che incontrano incomprensione o che non hanno una vera e propria casa.

I giovani adulti, al contrario, aspirano spesso con vera veemenza a organizzarsi una vita autonoma e ad allontanarsi dalla casa dei genitori. Si confida in se stessi e si ritiene di essere in grado di badare a tutto quanto riguardi l’esistenza fisica. A questo punto però si affacciano paure legate ad aspettative e a fallimenti. Il superamento di queste paure animiche e il consolidamento dell’esistenza interiore sono in prima posizione.

Verso la fine dei trent’anni, all’inizio dei quaranta, lo sviluppo animico raggiunge una certa maturità. In famiglia e nel lavoro il rapporto con gli altri si manifesta in un modo assolutamente diverso da quando si era all’inizio dei vent’anni. La sicurezza interiore e la fiducia in se stessi hanno raggiunto un notevole livello. Su questa base di partenza possono dunque venir poste nuove domande nella terza parte della vita, che sono ormai più orientate ad accertare l’esistenza spirituale. Qual è il senso della vita?

Ci sono davvero valori eterni all’interno di una biografia?

Cosa c’è dopo la morte?

Domande di questo tipo possono ovviamente sorgere anche nelle precedenti età, ma possono essere elaborate in modo assai diverso nella terza parte della vita.

Riguardando indietro alla propria esistenza è evidente come ogni età abbia avuto le sue paure e i suoi pericoli, e come grazie all’elaborazione di queste insicurezze e problemi si debba la successiva sicurezza e stabilità.

Diventa chiaro che il rapporto con la paura ha un’importanza centrale per tutta la vita terrena: destare l’individuo a domande di tipo conoscitivo sulla propria esistenza e sul rapporto con il mondo e con tutte le creature che vi appartengono. Sì, l’esperienza stessa che si possa passare attraverso così tante insicurezze senza smarrirvisi viene addotta a prova del fatto che l’essere spirituale dell’uomo, per sua natura, non dipende dai rapporti vicendevoli della vita terrena, bensì viene piuttosto inserito al loro interno allo scopo di conoscere se stessi e il mondo e instaurare un rapporto consapevole con la totalità del creato.

La coscienza di sé raggiunta e i risultati di questa esperienza diventano parti irrinunciabili dell’essere spirituale che l’uomo è per sua intrinseca natura. Se l’essere umano si è aperto un varco a questa concezione del proprio essere soprasensibile, allora la paura è superata e la condizione di insicurezza e di separazione risolta. Egli sente se stesso come un essere spirituale all’interno della comunità di altri esseri spirituali e riconosce che la separazione, il disagio esistenziale, e la paura possono venir provati sulla terra solo se si resta rinchiusi dentro a un corpo fisico. Allora si comincia a comprendere il passo del Vangelo, che dice che noi abbiamo paura in questo mondo, ma nell’unione con Lui si risveglia la forza della vera conoscenza di noi stessi, che supera la paura.

Come aiutare a gestire il contatto della paura nelle diverse età della vita

Da quanto finora esposto può essere chiaro che la comparsa della paura è collegata da un lato alla realtà della separazione e dall’altro alla minaccia, che si sperimenta come singolo individuo nei confronti di un ambiente circostante opprimente. Si prova paura o perché viene scatenata dall’interiorità per la consapevolezza di essere soli e deboli, oppure perché provocata dall’esperienza di un’influenza esterna soverchiante. Perciò anche le modalità per il superamento delle paure nelle diverse età della vita devono sempre venir elaborate tenendo presenti i due aspetti.

Come si può dunque aiutare un bambino a superare la consapevolezza della propria fragilità, separazione e solitudine?

Innanzitutto facendogli vivere con ripetuta regolarità l’esperienza del senso di protezione. Nel bambino piccolo, questo avviene attraverso un abbraccio protettivo e l’amorevole cura quotidiana. Nel bambino più grande trasmettendogli sicurezza animica e nell’adolescente facendogli sentire che si è interiormente vicino a lui, che lo si porta nella coscienza e che si è sempre disponibili al dialogo. Questi sono gli aiuti fondamentali nel rapporto con la paura che sorge dalla propria interiorità.

Più difficile è affrontare la paura che viene scatenata da una minaccia che proviene dall’esterno. Infatti, in questo caso, anche la maggior parte degli adulti è confusa e incapace di fare i conti con le proprie paure. La distruzione dell’ambiente, la minaccia atomica, le sostanze nocive nei prodotti alimentari, le catastrofi naturali e belliche – come si può imparare a superare la paura di queste cose? Come veniamo a capo di queste realtà?

Effettivamente sono questioni obiettivamente inquietanti.

Non abbindoliamo i bambini, quando desideriamo trasmettere loro senso di protezione mentre noi stessi abbiamo paura? Questo oggi per molte persone è anche una questione di onestà. Vivono fisicamente e animicamente in modo assai elementare i pericoli che vengono dal mondo esterno come una vera e propria minaccia esistenziale. Ed è estremamente chiaro che questa paura non può sparire dovrà permanere fino alla morte per coloro che non riflettono sulla possibilità della propria evoluzione spirituale. I fatti reali che agiscono dall’esterno, per esempio il fatto che tutti dobbiamo morire, che esistono la malattia, il bisogno, i conflitti di potere, e persino la possibilità del male, continueranno a esistere. Se non si riesce a porsi in un nuovo rapporto nei loro confronti e a riconoscere il loro significato per l’evoluzione spirituale dell’essere umano, allora la paura di queste cose non potrà mai venire realmente superata. E’ indispensabile , per coloro che vogliono consolare onestamente i propri bambini e aiutarli a superare le loro paure, essere anche disposti a lavorare al superamento delle proprie paure. Questo sarà un ulteriore aiuto per il bambino. Se invece ciò non accade, allora comunichiamo al bambino le nostre paure inespresse, così che il bambino sarà doppiamente pervaso dalla paura: dalla propria, specifica dell’età che sta vivendo, e quella degli adulti che gli sono vicino, che egli istintivamente condivide. Se il bambino sente che la mamma ha paura di molte cose esterne, nella sua vita, ma che impara a proteggersi e a lavorare al superamento di questa paura, allora un atteggiamento simile gli dà sicurezza: quando sarò grande, sarò capace anch’io di fare così. Poiché i bambini non sono ancora in grado di elaborare spiritualmente la paura, essi sono in balia della loro paura in un modo assolutamente diverso dagli adulti.

In questo contesto è importante rendersi conto che lo sviluppo della paura e della consapevolezza vanno di pari passo: la consapevolezza della separazione, della minaccia e della sopraffazione che scatenano la paura. Tanta più consapevolezza, tanta più disposizione potenziale alla paura. Quali sono i contenuti della coscienza che fanno paura? Sono tutti quelli che non si comprendono o che non si possono elaborare, nei confronti dei quali non ci si sente all’altezza. Tanto prima, dunque, la consapevolezza del bambino viene risvegliata e coltivata attraverso spiegazioni dettagliate su questo e su quello, tanto più forte diventa la sua disposizione ad avere paura di questo e di quello. Ci sono persone che conoscono bene determinati ambienti politici ed economici e di conseguenza sanno che cosa sta accadendo nel proprio paese o in diversi luoghi della Terra. Essi soffrono di fronte a una catastrofe potenziale, perché vedono una valanga potenziale che si ingrandisce sempre più. Sono pieni di preoccupazioni e di paura, mentre chi, nel suo ambiente non ne sa assolutamente nulla, se ne sta tranquillo anche di fronte a una minaccia reale. E’ importante, nel trattare con i bambini, non fornire loro alcuna conoscenza di ciò di cui non abbiano anche un’esperienza concreta che dia loro sicurezza. Ciò che è familiare, comprensibile, recuperabile allontana la paura e crea sicurezza.

Quando lo sviluppo della consapevolezza va di pari passo con la capacità di elaborazione dei contenuti della consapevolezza e della reale comprensione, abbiamo un aiuto decisivo per superare la paura.

Come può allora l’adulto superare la paura e imparare a gestire i contenuti della propria consapevolezza non ancora elaborati?

L’aiuto decisivo ci arriva dalla riflessione sul senso della paura, sul significato del male e di ciò che è distruttivo nel mondo.

Domandiamoci che cosa accadrebbe se le piante, gli animali e gli uomini non venissero distrutti e non potessero morire. La Terra non potrebbe essere uno spazio per il loro sviluppo. Tutto sarebbe già compiuto, trasformazione e cambiamento, rifiorire e divenire sarebbero impossibili. E diventa chiaro alla nostra coscienza il fatto sorprendente che lo sviluppo è possibile solo in quanto esistono il decadimento e la morte, grazie a cui è sempre possibile un nuovo inizio e una nuova creazione.

Anche la vita dell’uomo tra stato di veglia e sonno è inserita in questo ritmo di distruzione e ricostruzione. I nostri organi, di giorno, si logorano mentre di notte vengono rigenerati e ricostruiti. Senza questi processi quotidiani di distruzione noi non potremmo sviluppare alcuna consapevolezza; infatti è di notte che la nostra coscienza è spenta, quando il nostro organismo si rigenera e le strutture usurate vengono nuovamente ricostruite. Se si presta attenzione a questa concatenazione, allora diventa chiaro anche il significato legato alla realtà del male e della distruzione. E tutt’a un tratto non è più predominante la paura del male, ma si risveglia la comprensione del motivo per cui tutto ciò avviene. Rendersene conto richiama a una profonda serietà, ma anche a una quiete dell’anima del tutto nuova, e la paura scompare di fronte a ciò che ha un senso e che è comprensibile. Segue ora una seconda domanda: come si può cogliere una realtà duratura quando tutto diviene e trascorre, un “fondamento stabile” quando tutto si sviluppa, un “bene eterno” quando tutto è effimero? Nella ricerca della risposta, è di aiuto la riflessione sulla natura del pensiero. Si può portare alla coscienza che anche il pensiero relativo alla nostra personalità, l’Io individuale, partecipa all’universale vita di pensiero che permea il mondo. Si può scoprire che a ogni pensiero corrisponde qualcosa nel mondo; che ogni legge è in relazione a un qualsiasi effetto reale nel mondo. Ogni pensiero, ogni legge di natura, ogni formula matematica può essere da qualche parte realizzata o applicata in modo percepibile ai sensi. Per quanto transitorie possano essere le manifestazioni percepibili ai sensi, tuttavia restano fisse, imperiture e indistruttibili le forme, le leggi e i pensieri che si riferiscono alla realtà transitoria. Così, per esempio, sono valide le leggi matematiche che possono venire recepite attraverso il pensiero in tutto il mondo e possono essere scoperte dalle persone più diverse. Una buona lezione a scuola aiuta gli allievi a trovare da soli tutte le leggi della natura che vengono trattate nel corso del lavoro. Perfino scoprire da soli il teorema di Pitagora.

Chi da adolescente ha potuto imparare a pensare e a sperimentare in questa maniera, troverà più facile individuare nel proprio patrimonio creativo di idee il primo punto di appoggio per quello che è imperituro e indistruttibile nella propria essenza eterna, Infatti il pensiero del sé individuale è altrettanto indistruttibile e sempre rintracciabile nel mondo, come tutti gli altri pensieri.

Ed ecco che segue allora, quasi da sé, la domanda relativa alle ripetute vite terrene.

Non potrebbe essere la propria vita come la vita di una rosa, che può continuare a crescere e a realizzarsi nel mondo sensibile?

Ogni essere umano non è forse unico e inconfondibile, così come ogni tipo di rosa è unico e inconfondibile?

Così come una legge della natura può essere pensata indipendentemente dalla sua efficacia, si può pensare anche allo spirito umano indipendentemente dalla sua incarnazione?

Lo spirito umano non è anch’esso parte dell’essenza dei pensieri nel mondo, ed è superiore al divenire e allo scomparire, e appartiene alla cosiddetta eternità?

Esistono già oggi libri in cui madri raccontano le esperienze avute con i loro bambini, non ancora nati, durante il concepimento o la gravidanza. Altre riferiscono le proprie esperienze con i figli morenti. Da questi racconti risulta come la vicinanza e la presenza dei bambini venga percepita chiaramente anche quando essi non sono ancora nati nel mondo visibile oppure dopo che hanno lasciato questo mondo sensibile.

Temi di questo tipo ci aiutano a superare la paura. Al posto della paura della morte e dell’esistenza, subentra una profonda fiducia nella sostanzialità della propria esistenza spirituale. La paura si rivela come appartenente al mondo del passato, in cui ci viene data la possibilità, attraverso essa, di evolvere. Il mondo spirituale si manifesta come un mondo senza paura e pieno di stabilità, ma, proprio per questo, privo della possibilità di sviluppare qualcosa di nuovo. Il senso dell’incarnazione sulla Terra, nel mondo del perituro, può dunque venire esperito in modo nuovo. Come il neonato ha necessità dell’alternarsi dell’esperienza della separazione e di quella del senso di protezione per poter destare la coscienza di sé, così l’essere umano ha bisogno del senso di protezione nel mondo spirituale, dove, come essere pensante, è inserito nella consistenza dell’Essere eterno, per poi risvegliare la consapevolezza del sé individuale nell’incarnazione terrena, separato dalla sostanza del mondo, e per riconoscersi come essere umano nella sua unicità.

Alla nascita sono in primo piano l’esperienza della separazione fisica e la possibilità della paura. Nella morte, invece, risplende la sublimazione della separazione e la comunione con la protezione del mondo spirituale.

Porsi domande sulla vita e sulla morte può aiutare l’adulto nel lavoro per il superamento della propria paura; l’uomo diviene consapevole del proprio legame con il mondo spirituale, della propria sicurezza nel mondo dei pensieri.

Le persone che non hanno elaborato una sicurezza interiore possono trasmettere soltanto una sicurezza fisica e animica. Possiamo vedere a volte una persona simile che sorveglia in modo esagerato il suo bambino. Questo comportamento può essere ulteriormente accentuato dal fatto che si richiama prematuramente l’attenzione del bambino su ciò da cui deve stare in guardia. Attraverso la costruzione di numerose imposizioni e molti divieti, con cui si vorrebbe proteggere il bambino, si accentua la sua disposizione alla paura. La vera sicurezza contiene anche una grande fiducia interiore nel destino del bambino. Proprio i bambini apprensivi hanno bisogno non solo di sentire la protezione fisica, ma anche di percepire la sicurezza interiore dell’adulto.

La possibilità di un’elaborazione della paura personale e consapevole si presenta solo a partire dai 12-13 anni, quando si desta la capacità di avere dei pensieri autonomi. Un grande aiuto, fino a questo momento e anche in seguito, è la cura della vita religiosa all’interno della famiglia. Se i bambini sperimentano un’atmosfera piena di devozione e uno sguardo fiducioso verso lo spirito creatore del mondo,sarà loro facilitato l’accesso all’esperienza del divino nella propria anima, dell’eterno nel proprio pensiero.

Il tema della morte e della caducità è parte integrante della crisi durante la pubertà. Un consolidamento della fiducia nella propria esistenza spirituale è il rimedio più efficace per il bisogno animico e contro la paura di questo periodo. Per i ragazzi più grandi è poi una liberazione scoprire la filosofia, o studiare le diverse religioni e percepire nel proprio ragionamento e nella propria comprensione dei diversi punti di vista ciò che può avere un valore permanente ed è in grado di offrire sostegno nella propria coscienza.

Sull’umorismo

Un’educazione senza umorismo non esiste. L’educazione infatti ha sempre qualcosa a che fare con l’imperfezione e l’umorismo è l’unica cosa che può sollevare una persona al di sopra di qualsiasi imperfezione. Si può indicare la serietà come padre dell’umorismo e allo stesso modo la madre è la gioia, l’allegria. Questi due fattori operano insieme per sviluppare l’umorismo. Chi si arrabbia o reagisce con cinismo di fronte alle imperfezioni, non ha ancora scoperto che proprio nell’imperfezione viene dato lo stimolo per lo sviluppo e il conseguimento della perfezione. Chi lo scopre diviene grato e gioioso.

Questo buon umore è proprio ciò di cui hanno bisogno i bambini e soprattutto i ragazzi che entrano nella pubertà: vogliono essere presi sul serio, ma desiderano anche provare la libertà di svilupparsi in una situazione in cui le loro imperfezioni vengano tollerate.

Le persone con il senso dell’umorismo sono dotate di un Io particolarmente forte. Poiché sono esse stesse molto attive e in continua crescita, hanno comprensione dei processi dello sviluppo e, di conseguenza, anche delle imperfezioni. Le persone prive del senso dell’umorismo sono invece più deboli. Hanno bisogno della serietà e dell’imperativo morale come sostegno per la propria coscienza di sé e del piacere della critica per affermarsi nei confronti del mondo e per sentirsi forti. Una personalità con un forte Io, invece, può mostrarsi comprensiva anche di fronte a punti di vista diversi dai propri o a problemi molto complessi. Sviluppare il senso dell’umorismo diviene dunque un modo per comprendere situazioni e persone difficili e anche per imparare a interessarsi a tutto ciò che è nuovo. In questo processo si rafforza la personalità.

Un aiuto per sviluppare l’umorismo è scoprire il lato comico della vita quotidiana. Ecco un esempio: arrivate a casa, siete di corsa, mettete in fretta gli avanzi del pranzo del giorno prima in una pentola e fate un bel minestrone di riso, verdura, burro, spezie e acqua. Mentre il minestrone cuoce, vi preparate per uscire di nuovo. Poi tornate rapidamente in cucina per togliere la pentola dai fornelli. Scivolate su un paio di gocce di minestra, cadute a terra mentre la mescolavate, la pentola vi cade di mano e tutto il pranzo si sparge uniformemente sul pavimento. Chi riesce in una tale situazione a non lasciar esplodere la rabbia, ma piuttosto a sorridere, vedendo con quale maestria la minestra sia sparsa per tutta la cucina, ha già ottenuto molto. In fin dei conti si tratta di un evento insolito nella vita quotidiana. Basta guardarlo dall’esterno. Se vedessimo questa scena in un film, il protagonista affannato e affamato, il riso uniformemente sparso sul pavimento, la pentola rovesciata a terra e il piatto vuoto, spontaneamente si riderebbe. Se si riesce a guardare questa scena anche nel suo lato comico, allora aumenta la forza per dominare la situazione anche in modo originale. O si esce di casa più o meno ridacchiando, con armi e bagagli per strada e ci si compra un pezzo di torta o un panino per calmare la fame, rimandando le pulizie alla sera, oppure si disdice l’appuntamento e ci si dedica in tutta calma a ripulire, rendendosi infine conto che quell’indiavolato programma per la giornata era assolutamente insensato e che si necessita di una pausa.

I bambini amano gli avvenimenti di questo tipo e possono trovarli interessanti. Se i bambini avvertono che l’adulto non perde la calma, ma fa materialmente quanto è necessario per risolvere e migliorare la situazione, e se possono aiutarlo, allora queste esperienze diventano avvenimenti estremamente significativi della vita quotidiana e aiutano a riconoscere il lato serio, comunque connesso a questa situazione.” (da un testo di Michaela Glockler apparso sulla rivista “Arte dell’Educazione”)

Sulla nascita della paura

“Fino al momento in cui intervenne l’influsso luciferico, l’anima uniformava il suo lavoro, tutto ciò che doveva fare e formare, alle direttive delle entità spirituali superiori. Il piano di ciò che doveva essere compiuto era tracciato a priori, ed a seconda del grado di sviluppo della coscienza umana, si poteva prevedere come in avvenire gli eventi si sarebbero svolti in conformità di quel piano prestabilito. Questa coscienza profetica andò perduta quando le manifestazioni delle entità superiori vennero occultate dal velo delle percezioni terrestri, e dietro a queste si nascosero le vere forze delle entità solari. Il futuro divenne ormai incerto, e per tale ragione si introdusse nell’anima la possibilità della paura, che è una conseguenza diretta dell’errore. Si può vedere però anche come, per virtù dell’influsso luciferico, l’uomo abbia potuto diventare indipendente da alcune determinate forze da cui prima dipendeva ciecamente; egli poteva ora prendere decisioni dettate dalla propria volontà. La libertà è il risultato di questo influsso, la paura e altri sentimenti simili sono soltanto fenomeni secondari che accompagnano l’evoluzione dell’uomo verso la libertà.

Considerata spiritualmente la paura è comparsa perché nella sfera delle forze terrestri, sotto l’influenza delle quali l’uomo era stato posto per mezzo delle potenze luciferiche, erano attive altre potenze che si erano sviluppate irregolarmente nel corso dell’evoluzione, molto prima delle potenze luciferiche. L’uomo accolse nella sua natura, con le forze terrestri, l’influenza di queste potenze. Esse diedero la caratteristica della paura a sentimenti che si sarebbero altrimenti esplicati in modo del tutto diverso. Si può dare a queste entità il nome di arimaniche; sono le medesime che da Goethe sono state chiamate mefistofeliche.” (Rudolf Steiner, La scienza occulta, pag. 208)

Sull’Io dell’uomo

“Se anche è già stato detto più volte che i nostri sette periodi di civiltà avranno la loro fine con la guerra di tutti contro tutti, dobbiamo peraltro figurarci quella guerra del tutto diversa da come si è finora abituati a immaginare le guerre. Dobbiamo così guardare bene quali siano le basi e le vere e proprie cause di quella guerra. La base o la causa è il prevalere dell’egoismo, della mania egoica, dell’individualismo degli uomini. Nelle nostre considerazioni siamo già arrivati a vedere che l’io umano è un’affilata spada a doppio taglio. Chi non afferra che l’io è una spada a due tagli, poco comprenderà l’intero significato dell’evoluzione dell’umanità e del mondo. Da un lato l’io è la causa per cui gli uomini si induriscono in loro stessi, volendo mettere al servizio del loro io tutti i beni interiori e le cose esteriori che hanno a disposizione. L’io è la causa per cui tutti i desideri dell’uomo tendono a venir soddisfatti. L’io tende ad afferrare come sua proprietà una parte della proprietà comune della Terra; l’io tende ad allontanare dal suo campo tutti gli altri io, tende a far loro la guerra, a combatterli; questo è uno degli aspetti dell’io. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che allo stesso tempo l’io è quello che dà all’uomo la sua indipendenza, la sua intima libertà, quello che lo innalza nel più vero senso della parola. Nell’io è fondata la sua dignità. L’io è la disposizione verso il divino nell’uomo.

Il concetto dell’io procura difficoltà a molti. Ci è già risultato chiaro che l’io dell’uomo si è evoluto movendo da un’anima di gruppo, da una specie di io generale, dal quale si è differenziato. Non sarebbe giusto che l’uomo avesse di nuovo il desiderio di sprofondare con il suo io in un qualsiasi stato di coscienza generale, in un qualsiasi stato di coscienza comune. Tutto quel che spinge l’uomo a perdere il suo io, a perdersi in esso in uno stato di coscienza generale, è il risultato di una debolezza. Comprende l’io soltanto chi sa che, dopo esserselo conquistato nel corso dell’evoluzione cosmica, non può ora più perderlo.

L’uomo, se comprende la missione del mondo, deve tendere innanzitutto allo sforzo intenso di rendere l’io sempre più profondo, sempre più divino. I veri antroposofi non devono avere nulla in comune col motto secondo cui viene sempre auspicato il riunirsi dell’io in un io generale, lo sciogliersi in un qualunque mare primordiale. La vera concezione antroposofica del mondo può solo porsi come meta finale la comunità degli io divenuti indipendenti e liberi, degli io divenuti individuali. La missione della Terra si esprime appunto attraverso l’amore che pone liberamente l’io di fronte all’io. Non è perfetto l’amore derivante dalla costrizione, dall’essere incatenati assieme. Soltanto ed unicamente quando ogni io è tanto libero e indipendente da poter anche non amare, soltanto allora il suo amore è un dono del tutto libero. Il piano cosmico divino consiste, per così dire, nel rendere l’io tanto indipendente, come essere individuale, da poter portare l’amore dalla libertà stessa verso Dio. Se gli uomini potessero venir comunque costretti ad amare, sia pure nella maniera più mediata, ciò significherebbe guidarli con i fili della dipendenza.

L’io diverrà così il pegno della più alta meta umana. Ma in pari tempo, se non trova l’amore e si indurisce in se medesimo, esso è pure il corruttore che precipita l’uomo nell’abisso. E’ quindi ciò che divide gli uomini gli uni dagli altri, che chiama alla grande guerra di tutti contro tutti; non soltanto alla guerra di popoli contro popoli (perché il concetto di popolo non avrà più il significato di oggi), ma alla guerra del singolo contro il singolo nei più svariati settori della vita, alla guerra dei ceti contro gli altri ceti, delle caste contro le caste, delle stirpi contro le stirpi. In tutti i campi della vita l’io diverrà il pomo della discordia, ed è quindi lecito dire che da un lato l’io può portare alla massima evoluzione e dall’altro al più profondo abbrutimento. Perciò esso è una spada affilata a due tagli. Quindi chi ha portato agli uomini la completa coscienza dell’io, il Cristo Gesù, viene giustamente rappresentato nell’Apocalisse, come abbiamo visto, come colui che ha nella bocca l’affilata spada a due tagli.

Il Cristo Gesù portò l’io a piena completezza. Di conseguenza l’io deve essere rappresentato appunto mediante l’affilata spada a due tagli, come ci è noto da uno dei nostri sigilli. E’ anche comprensibile che l’affilata spada a due tagli esca dalla bocca del Figlio dell’uomo, perché quando l’uomo apprese a dire io con piena coscienza gli fu dato di salire alla massima elevazione o di scendere al più profondo abbrutimento. L’affilata spada a due tagli è uno dei simboli più importanti che ci vengono incontro nell’Apocalisse.” (Rudolf Steiner, L’Apocalisse, pag.138)

Per l’era di Michele

“Dobbiamo sradicare dall’anima

tutta la paura ed il timore

di ciò che il futuro può portare all’uomo.

Dobbiamo acquistare serenità

in tutti i sentimenti e sensazioni

rispetto al futuro.

Dobbiamo guardare avanti

con assoluta equanimità

verso tutto ciò che può avvenire

e dobbiamo pensare che

tutto quello che verrà

ci sarà dato da una direzione

del mondo piena di sapienza.

Questo è parte di ciò

che dobbiamo imparare in questa Era:

saper vivere in assoluta fiducia,

senza nessuna sicurezza nell’esistenza;

fiducia nell’aiuto sempre presente

del Mondo Spirituale.

In verità nulla avrà valore

se ci manca il coraggio.

Discipliniamo la nostra volontà

e cerchiamo il risveglio interiore

tutte le mattine e tutte le notti.

Rudolf Steiner