Metamorfosi della relazione padre e figlio

Una traversata immaginativa:
gli archetipi dell’età giovanile dal Principe Siddharta
alle sempre più tormentate figure dell’irrequietezza giovanile

A cura di Francesco Pazienza
francesco.pazienza@mac.com

 

Preliminari ed istruzioni per l’uso
Ogni età della vita umana sviluppa in noi qualcosa che si deposita sotto forma di immagine e permane come una risorsa preziosa.

Quando educhiamo dobbiamo fare appello anche a questa nostra risorsa. Per un verso ci serviamo della pedagogia per orientare la relazione educativa. Per altro verso dobbiamo fare i conti con le risonanze che permangono in noi dall’essere stati figli e adolescenti. Il primo ambito è di competenza della pedagogia, il secondo della psicologia.

Quando incontriamo un adolescente risuona in noi qualcosa della nostra adolescenza. Scopo di questo lavoro è compiere una sorta di viaggio attraverso le immagini archetipiche dell’adolescenza e di osservare possibilmente il senso direzionale in cui si affacciano alla coscienza umana. Raggiungeremo così l’obbiettivo di verificare, con l’esercizio dell’anima cosciente, l’immagine interiore dell’adolescente che siamo stati.

Possiamo pensare all’evoluzione della relazione Padre\Figlio come alla vita di una pianta? Ho cercato di ricostruire questa storia con un metodo che mi appare prossimo a quello con cui Goethe studia la metamorfosi delle piante. Ho pensato di prelevare diversi esemplari di questa “pianta” nel corso del tempo, elaborandone interiormente la metamorfosi e decifrandone il senso, per raggiungere il nostro scopo senza fare ricorso ad un procedimento analitico. La psicanalisi è analitica quanto il riferimento alla teoria metamorfica vuole essere sintetico.

Il tema del distacco dal padre è uno dei temi centrali dell’adolescenza, l’età della vita che porta un bambino a diventare adulto.

L’immagine dell’adolescenza è relativamente recente con le caratteristiche psicologiche per le quali oggi la riconosciamo. Il diritto romano, su cui si fonda la legislazione europea almeno fino all’Illuminismo, non conosce nulla di simile all’istituto della maggiore età. Il padre può esercitare la patria potestà, se lo vuole, fin che è in vita.

Nelle cosiddette società primitive esisteva semplicemente un rito di iniziazione, connesso con il momento fisiologico della pubertà, che introduceva i bambini nel mondo degli adulti.

L’adolescenza, come tipica età della vita, è recente quanto la possibilità umana di sviluppare l’anima cosciente.

Affronteremo un viaggio in cui ad ogni stazione contempleremo un’immagine di grande risalto: sarà come assumere un rimedio omeopatico ad alta diluizione. E’ importante lasciare risuonare in noi queste immagini.

Distingueremo due tratti del nostro percorso: l’incontro con gli adolescenti in cielo e quello con gli adolescenti in terra. Opero questa distinzione perché sono stupito di come le prime immagini che si siano affacciate alla mia memoria, rievocando la genesi dell’attuale immagine dell’adolescente, siano state immagini con una strettissima relazione con il mondo spirituale (Siddharta, Gesù e Francesco d’Assisi). Mi sono egualmente stupito di vedere qualcosa di capovolto nel momento in cui, da Amleto in poi, la figura dell’adolescente si storicizza e penetra nel nucleo biografico nei dintorni dei 21 anni.

Aurora (come un esergo)

A sera, dopo l’ora dell’osservazione, Siddharta comunicò a Govinda: “Domani mattina per tempo, amico mio, Siddharta andrà dai Samana. Diventerà un Samana anche lui”

A queste parole Govinda impallidì, e nel volto immobile dell’amico lesse la decisione, inarrestabile come la saetta, scagliata dall’arco. Subito, al primo sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddharta la sua via, ora comincia il suo destino a germogliare, e con il suo il mio. E divenne pallido, come una buccia di banana secca.

“O Siddharta,” esclamò “ te lo permetterà tuo padre?”.

Siddharta sollevò lo sguardo, come uno che si ridesta. Fulmineamente lesse nell’anima di Govinda: vi lesse la paura, vi lesse la dedizione.

“O Govinda,” rispose sommessamente “è inutile sprecar parole. Domani all’alba comincerò la vita del Samana. Non parliamone più”.

Siddharta entrò nella camera dove suo padre sedeva sopra una stuoia di corteccia, s’avanzò alle sue spalle e rimase là, fermo, finche suo padre s’accorse che c’era qualcuno dietro di lui. Disse il Brahmino : “ Sei tu, Siddharta? Allora di’ quel che sei venuto per dire ”.

Parlò Siddharta: “Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti che desidero abbandonare la casa domani mattina e recarmi fra gli asceti. Diventare un Samana, questo è il mio desiderio, voglia il cielo che mio padre non si opponga”.

Tacque il Brahmino: tacque così a lungo che, nella piccola finestra le stelle si spostarono e il loro aspetto mutò, prima che venisse rotto il silenzio nella camera. Muto e immobile stava ritto il figlio con le braccia conserte, muto e immobile sedeva il padre sulla stuoia, e le stelle passavano in cielo. Finalmente parlò il padre: “Non s’addice a un Brahmino pronunciare parole violente e colleriche. Ma l’irritazione agita il mio cuore. Ch’io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua bocca.

Il Brahmino si alzò lentamente; Siddharta restava in piedi, muto, con le braccia conserte.

“ Che aspetti? ” chiese il padre.

Disse Siddharta : “ Tu lo sai ”.

Irritato uscì il padre dalla stanza, irritato cercò il suo giaciglio e si coricò.

Dopo un’ora, poiché il sonno tardava, il Brahmino si alzò, passeggiò in su e in giù, uscì di casa. Guardò attraverso la piccola finestra della stanza, e vide Siddharta in piedi, con le braccia conserte : non s’era mosso. Come un pallido bagliore emanava dal suo mantello bianco. Col cuore pieno d’inquietudine, il padre ritornò al suo giaciglio.

E venne di nuovo dopo un’ora, venne dopo due ore, guardò attraverso la piccola finestra, vide Siddharta in piedi, nel chiaro di luna, al bagliore delle stelle, nelle tenebre. E ritornò ogni ora, in silenzio, guardò nella camera, vide quel ragazzo in piedi, immobile, ed il suo cuore si riempì di collera, il suo cuore si riempì di disagio, il suo cuore si riempì d’incertezza, il suo cuore si riempì di compassione. Ritornò nell’ultima ora della notte, prima che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il giovane in piedi, e gli parve grande, quasi straniero. “ Siddharta, ” chiese “ che attendi? ”.

“ Tu lo sai”.

“ Starai sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera? ”.

“ Starò ad aspettare ”.

“ Ti stancherai, Siddharta ”.

“ Mi stancherò ”.

“ Ti addormenterai, Siddharta ”.

“ Non mi addormenterò ”.

“ Morirai, Siddharta ”.

“ Morirò ”.

“ E preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre? ”.

“ Siddharta ha sempre obbedito a suo padre ”.

“Allora rinunci al tuo proposito? ”.

“ Siddharta farà ciò che suo padre gli dirà di fare ”

Le prime luci del giorno entravano nella stanza. Il Brahmino vide che Siddharta tremava leggermente sulle ginocchia. Nel volto di Siddharta, invece, non si vedeva alcun tremito: gli occhi guardavano lontano. Allora il padre s’accorse che Siddharta non abitava già più con lui in quella casa: Siddharta l’aveva già abbandonato.

Il padre posò la mano sulla spalla di Siddharta. “ Andrai nella foresta, ” disse “ e diverrai un Samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna : riprenderemo insieme a sacrificare agli dèi. Ora va’ a baciare tua madre, dille dove vai. Ma per me è tempo d’andare al fiume e di compiere la prima abluzione ”.

Tolse la mano dalla spalla di suo figlio, e uscì. Siddharta barcollò, quando provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s’inchinò davanti al padre e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto.

Quando alle prime luci del giorno, lentamente, con le gambe indolenzite, lasciò la città ancora silenziosa, un’ombra, ch’era accucciata presso l’ultima capanna, si levò e s’unì al pellegrino: Govinda.

“ Sei venuto ” disse Siddharta, e sorrise.

“ Sono venuto ” disse Govinda.

Adolescenti in cielo

La figura del principe Siddharta si staglia contro il fondale dell’antico induismo. Là dove l’unico peccato era l’impazienza, il nostro eroe brilla per una sorta di sublime impazienza.

Quello che abbiamo visitato è il primo capitolo del romanzo “Siddharta” di Hermann Hesse.

Vi possiamo trovare l’immagine memorabile del congedo del principino che vuol diventare asceta perché comprende di vivere in una realtà che gli nasconde la realtà. Pone la sua richiesta al padre che inizialmente non la vuole intendere e la porta con una fermezza che lo immobilizza davanti alla volontà del padre per una intera notte. Scintillano le stelle sul fondale e solo le ginocchia di Siddharta hanno un leggero tremito. Il padre inquietato da tanta fermezza dà il consenso da cui il principe non avrebbe concepito di poter prescindere.

Immaginiamo una sfera: la volontà del padre e la volontà del figlio vi abitano indifferenziate. Dorme lì la sacralità dell’obbedienza ai genitori. Davanti ad una uguale tensione ad obbedire alla legge del padre e ad un proprio progetto esistenziale, nella sfera si apre la prima memorabile frattura. La volontà del padre e la volontà del figlio non possono più coincidere. La sfera si spezza ma lo fa con una eleganza e con una forza rispetto a cui, qualunque attuale conflitto genitore-figlio diventa parodia. Siddharta ha 28 o 29 anni, secondo la tradizione, in questa scena. Non è propriamente adolescente ma costituisce con questo gesto il sogno proibito di ogni adolescente futuro.

L’immagine successiva che ho reperito comporta non solo un salto di quasi sei secoli ma ci propone anche un protagonista non più di 28 o 29 anni ma di 12 anni. Difficile non rilevare il riferimento al ciclo di Saturno, nel primo caso, e di Giove, nel secondo.

La scena che andiamo a visitare racchiude le uniche parole di Gesù, prima del Battesimo sul Giordano, che uno solo dei quattro Vangeli (Luca, 2, 41-50) ci riporta.

Per la festa di Pasqua la famiglia di Gesù si reca come ogni anno a Gerusalemme ma questa volta, nel viaggio di ritorno, dopo una giornata di cammino i genitori si rendono conto che il fanciullo non è con loro. Tornano a Gerusalemme e lo ritrovano nel tempio, è seduto in mezzo ai Dottori: li interroga ed insegna loro la Legge. Al colmo dello stupore e dell’angoscia dei genitori risuonano le abissali parole del fanciullo: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Passi l’aver smarrito il fanciullo per tre giorni. Passi anche la circostanza del ritrovamento e lo stupore di trovare un dodicenne (in quell’epoca!) che insegni la Legge ai Dottori. Ciò che può colmare qui la misura del nostro stupore è invece la frase che impone al padre l’enigma che il Vangelo di Luca aveva fin’ora risparmiato a Giuseppe.

Ricordiamo che in Matteo l’Annunciazione e la rivelazione dell’origine divina del fanciullo è rivolta al padre mentre in Luca alla madre. Giuseppe ha creduto finora alla parola di Maria, l’ha amata e l’ha condotta con sé. Mai come in questo momento si trova viso a viso con il mistero che intesse la vita di questo bambino (e di ogni futuro bambino dopo di lui). Nel Vangelo di Luca un simile enigma si era invece imposto a Zaccaria per la nascita di Giovanni, il battista. Era …”ammutolito”. Questa volta tocca a Giuseppe di ammutolire. Ed elaborare per la prima volta ciò che dopo di lui ogni genitore deve elaborare intorno ai 12 anni del figlio.

Non accade anche ai nostri giorni che a dodici anni i ragazzi comincino a spiegarci le leggi della vita! Incredibile, per loro, come noi si sia vissuto tanto ignorando verità tanto evidenti! Certo noi e i nostri figli siamo solo “poveri Cristi” ed è difficile che i nostri ragazzi trovino udienza presso i dottori dell’antica Legge ebraica! Si tratta però, ancora una volta, come nel caso di Siddharta, di una grande aspirazione dei nostri giovani attori.

In questa scena per la prima volta abbiamo l’affermazione da parte del fanciullo di un altro Padre, un padre con la maiuscola, invisibile, più forte che diviene improvvisamente primario rispetto al padre con la “p” minuscola, il comune padre biografico.

Vedremo come questa funzione del figlio tra Padre e padre subirà metamorfosi nella storia.

Ho prelevato la “foglia” successiva della “pianta” dodici secoli dopo (difficile sottrarsi alla suggestione dell’analogia tra i 12 anni e i 12 secoli!). Sono pronto a rispondere dell’arbitrarietà di questa scelta ma non mi pare proprio che il diritto romano offrisse molte occasioni a figli giovani di affermare un proprio progetto esistenziale. La storia di Francesco d’Assisi che vado ad introdurre può ben esemplificarlo.

Nel frattempo l’Europa ha subito il fascino della cultura cortese e Francesco (Giovanni all’anagrafe, per volere materno) deve tale nome, che significa semplicemente “francese”, all’inclinazione del padre Pietro Bernardone per quella cultura provenzale. Francesco crescerà in ossequio agli ideali paterni e si rivelerà un punto di riferimento per la vita giovanile assisense. Svilupperà una grande sensibilità ed una ricca vita di sentimento. Dopo i 21 anni cercherà di misurarsi con una impresa cavalleresca ma non ha il talento di Parsifal e dopo pochi giorni rientra a casa tra l’ilarità generale. Matura in segreto una conversione accettando di leggere il suo destino in incontri significativi. Appena maturano i frutti esistenziali di questa conversione, Francesco vuole lasciare la strada tracciata dal padre per lui e la vivace reazione del padre non si fa attendere. Forte di un diritto romano che gli conferisce tale potere, Pietro trascina il figlio ventiquattrenne in tribunale ingiungendogli la restituzione di ogni bene e la rinuncia al suo diritto patrimoniale.

L’immagine che vorrei offrire alla contemplazione è quella del giovane Francesco che si denuda davanti al padre rendendogli gli abiti che indossa e proferendo la memorabile sentenza: “Non più te chiamerò padre”. Di nuovo un Padre subentra ad un padre ma questa volta un altro Pietro subentrerà al posto di Pietro Bernardone: il Vescovo che lo ricopre col suo mantello e lo accoglie nella chiesa di Pietro, istituzione tutta da ristrutturare! Ottimo affare per il Vescovo!

Vedremo Francesco negli anni successivi metamorfosare l’ideale cortese nel suo itinerario creativo. L’incontro con Chiara, in cui persino la critica cattolica riconosce una relazione di amor cortese, diventa una nuova figura del progetto spirituale di Francesco. L’incontro, figura fondante la dimensione dell’amor cortese, resta comunque il grande laboratorio di Francesco, dall’incontro col lebbroso in poi.

Adolescenti in terra

uattro secoli e, nelle notti in cui si prepara il futuro dell’Europa, qualcosa di inquietante si insinua. Sarà solo un fantasma ma c’è uno strano odore di modernità. Presagi apocalittici.

Nell’epoca di Amleto si pongono tutti i presupposti della moderna civiltà industriale. Si cerca il modo di dialogare con la natura che sarà il fondamento della moderna scienza. Vedremo ben presto come in questo tentativo di dialogo l’uomo, innamorato della sua ragione e poco curioso di indagarne l’origine, alzerà la voce in modo arrogante per piegare la natura alla sua volontà di potere ed il dialogo non potrà essere più un dialogo, diventerà progressivamente un interrogatorio sempre più pressante e infine una tortura che ci precluderà sempre più la possibilità di ascoltarne la voce.

Amleto, principe di Danimarca, è un personaggio teatrale, ma riconosciamo immediatamente in lui un adolescente in terra: segna il punto di impatto di una realtà, fino a quel momento immersa nel mondo spirituale, con qualcosa di guasto, qualcosa di marcio nel regno di Danimarca.

E’ il primo grande adolescente nero e storico. C’è qui una totale reversione di ruoli: gli adolescenti in cielo si staccano da un padre naturale per affermare un padre soprasensibile portatore di nuovi e più potenti valori. Con Amleto il portatore di valore è il padre naturale che è stato ucciso e che riappare come fantasma ad incitare il figlio all’azione autonoma e cosciente ed in fianco appare il padre negativo, il patrigno, quello che d’ora in poi apparirà in assoluta solitudine in Dostoevskij ed Ibsen. Quello di cui, ne Il giovane Holden, non conosciamo nemmeno il volto: sarà sostituito infine dallo psicanalista. In Amleto le due figure sono ancora coesistenti anche se una in forma di fantasma.

Con Amleto abbiamo una reversione apparentemente totale: non dispone più della veggenza dei suoi illustri predecessori ma, a modo suo, ci vede benissimo. Ci vede come ci si può vedere nella sua epoca più vicina alla nostra. Amleto sente un patrigno usurpare il sacro ruolo del padre prima che quel padre naturale, che per Gesù e per Francesco diventerà insufficiente, possa schiudergli la prospettiva sul Padre con la maiuscola.

Affermare il Padre con la maiuscola significa per lui agire, prendersi in mano, prendere le armi, se necessario, e difendere l’ideale del padre usurpato dallo zio, nel ruolo del falso padre.

1. Il romanzo “I fratelli Karamazov” costituisce, negli intenti di Fedor Dostoevskij, una biografia di Alesha Karamazov. Leggendo le oltre mille pagine del romanzo è facile perdere questa prospettiva ma il prologo “L’autore al lettore”, che vale la pena di rileggere a lettura ultimata, non lascia dubbi.

“Iniziando la biografia del mio eroe, Aleksej Fedorovic Karamazov, mi sorprendo in una certa titubanza. E infatti: benché io chiami Aleksej Fedorovic il mio eroe sono il primo a sapere che si tratta di tutt’altro che d’un grand’uomo (…)

(…)

(…)Per me, egli è significativo ma dubito profondamente di riuscire a dimostrarlo al lettore. Il fatto è che si tratta bensì, a guardar bene d’un uomo d’azione, ma d’un uomo d’azione non ben definito, non ancora chiaritosi compiutamente. Sarebbe strano ,del resto, in un’epoca come la nostra, esigere dagli uomini la chiarezza;

Verrà poi definito “stravagante” ma…

“può avvenire che appunto egli, se non vi dispiace, rechi in sé, qualche volta, il midollo dell’universo, mentre gli altri uomini della sua epoca, tutti quanti, in una specie d’uragano, si sono temporaneamente, per un motivo o per l’altro distaccati da lui… “

Alesha è il più giovane dei tre figli di Fedor Pavlovic. Viene dipinto in un’aura di tenera sacralità. Come i due fratelli è alle prese con una famiglia che definire con termine moderno disfunzionale è sicuramente dir poco. Nessuna delle due madri di questi tre figli sopravvive ai loro primi anni. Tre figli si trovano affidati ad un padre dissoluto ed amorale. Ciascuno di loro sopravviverà a modo suo. Spesso testimoni dalla più tenera età delle dissolutezze paterne, li vedremo affidati all’uno o all’altro parente, a un conoscente o ad un inserviente.

Mi è parso suggestivo notare come questi tre figli sviluppino ciascuno una particolare sensibilità focalizzata in ciascuna delle tre parti dell’anima, per come l’anima ci viene descritta dall’antropologia steineriana (anima senziente, razionale e cosciente).

Potremmo vedere in Dimitri una focalizzazione sui processi dell’anima senziente. Il suo bruciante innamoramento per Grushenka, desiderata anche dal padre, è un tema portante della vicenda.

In Ivan non è difficile scorgere una focalizzazione sull’anima razionale. “La leggenda dell’inquisitore” che di per sé merita un posto nella letteratura ottocentesca è opera sua.

In Alesha mi pare indubbio il primato dell’anima cosciente. Insorge in lui con grande intensità la coscienza del male ed il disperato, magari insufficiente, anelito a porvi rimedio. In questa luce mi appare significativo che l’autore intenda il romanzo come la sua biografia. Mi sento autorizzato da questo a scorgere nella tormentata vicenda, il difficile cammino dell’uomo della nostra epoca verso l’anima cosciente.

Alesha, fin da ragazzino, prende la via del convento e trova nello starec Zosima una sorta di Padre elettivo. Nel giro di pochi giorni, in pieno terzo settennio, perderà entrambi i padri. Ma il Padre-starec, prima di morire, dopo aver partecipato ad una memorabile “riunione di famiglia” in cui si rende evidente l’impossibilità di mediare i conflitti d’interesse e di passione tra padre e figli, ordinerà ad Alesha di lasciare il convento e di tornare nel mondo. Inizierà da qui la traversata che farà di Alesha, a mio vedere, il prototipo del moderno volontario. E’ in lui particolarmente leggibile il moto dell’anima cosciente che lo porta ad ergersi, solo ed inerme, argine di un male che d’ora in poi vedremo sempre incarnato nella figura del padre naturale. Non a caso la “missione di volontariato” di Alesha avrà per teatro un gruppo di adolescenti su cui sono ben leggibili i segni del male che la famiglia Karamazov porta in sé.

Il percorso che può portarci ad incontrare Osvald Alvin negli “Spettri” ibseniani è un percorso in discesa. E’ però anche il percorso che i programmi per la scuola steineriana prevedono per la dodicesima classe. Incontriamo Osvald in un contesto di famiglia e di società completamente esplosa. Il dramma si apre tra colloqui variamente edificanti. Un padre vedovo cerca di ricondurre a sé una figlia, evidentemente trascurata in passato, con un poco convincente progetto di locanda che offrirebbe ai naviganti un sicuro ristoro ed in queste cose, si sa, è indispensabile una aggraziata mano femminile. Risparmio ulteriori sgradevoli particolari e vi presento la vedova Alvin, madre di Osvald, che discute col reverendo pastore Manders i particolari concernenti l’imminente inaugurazione di un asilo. Questa istituzione renderebbe imperitura la memoria dell’adorato padre di cui passo-passo vengono al pettine i nodi di grottesca dissolutezza mai risolta in vita, malgrado le apparenze di rispettabilità. Perché assicurare l’asilo contro l’incendio? Potrebbe essere un messaggio di dubbia fede nocivo al mondo. Se l’asilo incarna un anelito divino sarà compito del buon Dio proteggerlo! E via di questo passo. Naturalmente l’asilo non potrà che bruciare: può apparirci un atto di giustizia. Quel che è peggio e che costituisce la sostanza del dramma è che, malgrado la madre, dalla prima adolescenza del figlio, abbia provveduto ad allontanarlo dal padre mandandolo a studiare a Parigi, non appena rientrato dopo la morte del padre, il figlio manifesti segni evidenti di contaminazione di spettri che inducono in lui i poco edificanti comportamenti del padre. Il padre ed i suoi spettri, come in Amleto, ma il senso è completamente capovolto.

Il primo atto del dramma segna l’irruzione degli spettri. Il secondo vede le fiamme sulfuree divorare la pia istituzione dell’asilo, la terza ci mostra il figlio dolorosamente contratto in una morsa di invincibile spossatezza invocare il sole, mentre il sole sorge sul ghiacciaio.

A mio vedere si chiude qui la spirale della metamorfosi della relazione Padre-Figlio. Precisamente in questa invocazione al Sole che ci riconnette con la radice indoeuropea di questa relazione.

Nell’antica India ai padre era vietato il contatto con i figli prima di una cerimonia iniziatica in cui, dopo lo svezzamento, prima di incontrare il padre, veniva mostrato al figlio il Sole nascente e di questo si diceva: Questo è tuo padre. Osvald e tutti giovani della nostra epoca devono pervenire a questo stesso punto non più grazie al ritualismo intuitivo di una cerimonia ma con la forza della propria coscienza attiva e desta.

Ho cercato di ricostruire la metamorfosi di una pianta e Goethe e Steiner mi hanno insegnato che il senso della pianta si compie in un impercettibile sussurro tra il fiore, l’aria ed il Sole. Agente di questa comunicazione è la sostanza aromatica che il Sole sublima. L’Io umano è il fiore di questa pianta e più in generale questa pianta possiamo chiamarla Uomo.

Penso che questa pianta non sia in via di estinzione e nemmeno che la società futura sarà una società senza padri o senza famiglia. La direzione che ha preso la curva di metamorfosi che ho evidenziato indica, a mio avviso, che da questi eventi tragici può nascere una nuova forza. Dalla nascita della tragedia in poi l’uomo occidentale si evolve sviluppando le sue forze di coscienza e di individualità nell’impatto con l’elemento tragico.

Rudolf Steiner ci suggerisce che le immagini interiori non vadano pensate in funzione della rappresentazione del reale. Le immagini interiori sono semi di organi di percezione spirituale. Sono semi di nuove forze, di nuove capacità. Le immagini interiori che la letteratura di questi secoli ha espresso a proposito della relazione Padre\Figlio ci indicano, a mio vedere, che sono pronte a sbocciare nei figli le forze per comprendere che cosa un Padre sia al di là dell’individuo che biograficamente può rappresentarlo. Forse quanto più grottescamente indegno ci appaia un padre, tanto più l’invocazione di Osvald al Sole si leverà sonora.

Nel tronco della pianta che abbiamo studiato dormono tutte le figure di padri protettivi che hanno permesso al tenero rampollo dell’uomo di crescere fino alla possibilità di affermare coscientemente la propria volontà. Solo la psicologia sprovveduta di un paio di decenni fa ha potuto pensare, creando non pochi inconvenienti negli anni successivi, che l’esercizio di una qualche umana autorevolezza, nei primi anni di vita del figlio, potesse costituire una grave violazione della libertà e della dignità dello stesso. L’esperienza ci insegna invece che quanto più equilibrata, umana e saggia é l’autorevolezza di cui un educatore si serve entro i 12 anni di un figlio, tanto più egli, interiorizzando questi doni e maturando la sicurezza che tale protezione é in grado di conferirgli, riesce a sviluppare capacità di reale autonomia.

Tra i nodi di questo tronco possono dipartirsi i rami. Guardando questi rami possiamo pensare a come la volontà individuale del figlio possa prendere tutte le direzioni dello spazio e in tutte le direzioni portare le sue foglie.

Fino alla generazione del fiore come dono solare e del frutto come dono per la terra. Il fiore di questa pianta è lo sviluppo della spiritualità dell’Io umano nell’anima cosciente. La capacità umana di percepirsi come essere libero e cosciente. Il frutto è la capacità di rendere efficace tutto questo per la protezione ed il riconoscimento della spiritualità della Natura, fortemente insidiata dallo sviluppo umano (talvolta disumano) di questi decenni.

Solo un uomo che abbia elaborato coscientemente i suoi legami con ciò da cui proviene e grazie a cui si evolve, potrà conferire alla madre-terra il sostegno di cui la terra ha bisogno.

Io credo che l’essere umano possa diventare padre, madre e figlio di sé stesso.

Credo che l’Io umano possa ritrovare in sé, al fiore del suo sviluppo, quanto in altri tempi è stato incomprensibile come mistero della Trinità.

Dedico l’amore e lo sforzo di questa traversata alla figura spirituale che emerge dalle pagine del romanzo “Il giovane Holden” di J.D. Salinger.

Ve ne offro uno stralcio dal primo e dall’ultimo capitolo per invogliarvi a leggerlo.

Mi pare che contenga indicazioni preziose di diverso tipo.

Mi sta a cuore un unico piccolo commento finale.

Quando, come mi auguro, ben motivati dal lavoro fatto insieme, ci appresteremo a riflettere e a lavorare sulla nostra biografia….

se ci capitasse di udire, dentro o fuori di noi, parole simili a quelle del giovane Holden che vi riporto…

Beh, significa che abbiamo cominciato a lavorare davvero in una direzione interessante!

Spero anche, per chi intende qualcosa di Antroposofia, che in tutto questo percorso si intuisca traccia dell’opera silenziosa ma sempre presente, sempre giovanile, di un certo Cristiano Rosacroce, di cui Rudolf Steiner ci dice qualcosa.

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e come è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto – chi lo nega – ma anche maledettamente suscettibili. D’altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia.

Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi. Probabilmente potrei dirvi quello che feci quando andai a casa, e come mi sono ammalato e via discorrendo, e a che scuola dovrei andare in autunno quando sarò uscito di qui, ma non ne ho voglia, sul serio. Ora come ora queste cose non mi interessano molto.

Un sacco di gente, soprattutto questo psicanalista che c’è qui, continuano a domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. E’ una domanda così stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete finchè non lo fate? La risposta è che non lo sapete. Credo di si, ma come come faccio a saperlo? Giuro che è una domanda stupida.

(….)

(….) Se proprio volete saperlo non so che cosa ne penso. Mi dispiace di averla raccontata a tanta gente. Io, suppergiù so soltanto che sento un po’ la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. Perfino del vecchio Stardlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire la mancanza perfino del maledetto Maurice. E’ buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.