Recitazione e teatro nella scuola steineriana

Conferenza tenuta dal Dott.Leonelli ai cantori delle recite di Natale

Credo che il tema che mi è stato proposto sia già per tutti voi piuttosto chiaro, non ho l’impressione di dover sostenere una causa. L’impiego della recitazione nella scuola rappresenta uno degli strumenti privilegiati della pedagogia steineriana. Il significato del lavorare insieme nel teatro precede di millenni la nostra pedagogia; tutte le comunità sociali importanti hanno sempre avuto la recitazione e il teatro come momento fondamentale della vita comunitaria. Le cosiddette recite di Natale che vengono utilizzate nelle nostre scuole si riferiscono ad una tradizione popolare che prevedeva il fatto che per mesi prima della recita, le persone si preparassero ai ruoli assegnati, a volte anche per anni, e che quindi questo lavoro avesse un suo significato per la comunità. Le recite poi venivano rappresentate in vari centri e luoghi. Ancora molto tempo prima la stessa cosa è accaduta nel mondo greco, dove in fondo la preparazione del teatro costituiva una grande parte della vita sociale: tragedie e commedie venivano presentate in un arco di tempo e premiate; tutta la comunità della “polis” (della città) si preparava a questo evento. Il teatro di per sé costituisce un momento fondamentale della vita di una comunità.

Si potrebbe anche dire che, dove si riesce a fare teatro, si immette nella vita della comunità un elemento aggregante, un elemento di risveglio della coscienza sociale. Quindi non solo una comunità tende a produrre teatro, ma il teatro agisce beneficamente sulla formazione della comunità. Questo vale molto in generale, in particolare poi, nel caso delle recite, dell’uso pedagogico delle recite e del teatro, è già stato detto tutto. Noi sappiamo che ha un’enorme importanza per i bambini la rappresentazione teatrale, sia che la vivano da semplici spettatori, sia ancor più che vengano coinvolti come attori nella rappresentazione. Questo coinvolgimento, come voi sapete, ha un’infinità di aspetti e di valori. Si vive la partecipazione ad un evento festivo e alla creazione di un’opera che deve presentarsi senza smagliature, completa, una sorta di imitazione della realtà, di mimesi della realtà. Il bambino deve partecipare alla creazione di un mondo che spesso non è più presente, non è più quello attuale e che non deve presentare possibilmente sbavature, rotture; si deve poter sopportare per lungo tempo (per un’ora o due) di essere del tutto dentro il personaggio, dimenticando se stessi e dimenticando il presente. Questa è un’esperienza molto importante per un bambino; deve saper stare per un momento in un’altra parte, è costretto a non uscire da questo ruolo per farsi riconoscere nel presente, cioè come lui è, come gli altri sono ma per un attimo genitori, parenti, amici sono il pubblico, sono spettatori e il bambino deve sperimentare una certa solitudine costruttiva, creativa. In quel momento lui è nei panni di qualcun altro,eppure è se stesso, ma (come dire) chiuso dentro la maschera, dentro il personaggio e deve far vivere questo personaggio senza uscirne; questa è una grande disciplina. Dall’altro lato è estremamente importante tutto quello che riguarda la vocalità, l’apprendimento della capacità di parlare, non solamente per se stessi, ma di parlare perché la voce arrivi dove deve arrivare, perché la voce sia veicolo di un significato e non solo un’espressione della propria persona; la voce non è più al servizio dei propri umori o malumori, o delle proprie idee ma al servizio del personaggio, al servizio delle cose che è importante dire perché solo così si può capire quello che accade. Naturalmente anche il gesto, il portamento sono di grande valore; il bambino deve acquisire una capacità di gestirsi e di comportarsi che devono essere coerenti con quelle degli altri e coerenti con il personaggio a cui dà vita.Questo processo può avere un’azione benefica enorme se, come spesso accade, gli insegnanti nella scelta dei ruoli e nella scelta delle opere da rappresentare tengono conto della psicologia e della vita dell’anima dei ragazzi di una classe; tengono conto della possibilità che una certa storia, che si vuole rappresentare, parli in modo diverso al conscio ed al subconscio di ciascuno e possa venire rappresentata dai bambini in maniera che, nel farlo, riescano (per esempio) a superare delle difficoltà interiori, oppure riescano a cogliere nei personaggi che fanno vivere i limiti, le assurdità. Si può benissimo rappresentare un violento, si può rappresentare un omicida, si può rappresentare ….insomma nel teatro in fondo è lecito rappresentare tutte le figure: il bene e il male. Si può essere il diavolo e si può essere un angelo o Dio Padre e naturalmente avrà un effetto sull’interiorità molto diverso; il fatto di dar vita ad un angelo, sapendo (magari!) di non esserlo molto e imparando a riflettere mentre si fa l’angelo sulla dinamica tra l’apparire e l’ essere; oppure dar vita ad un diavolo e scoprire di avere dentro di sé forze del tutto simili, del tutto analoghe, come una voce, come se improvvisamente avesse preso corpo una parte della propria interiorità.

I maestri scelgono i personaggi e i loro attori tenendo conto dell’opportunità e utilità di indirizzare l’uno o l’altro bambino a fare precisamente quell’esperienza; non sempre il protagonista è necessariamente lo stesso; nel lavoro in comune ognuno, in genere, impara la parte di tutti gli altri ed è facile immaginare uno scambio di ruoli o una disponibilità a scambiare i ruoli. Questo ha un enorme significato lungo l’età e lungo lo sviluppo del bambino stesso. Il teatro è uno strumento pedagogico con cui si possono affrontare problematiche che altrimenti, secondo costumi meno artistici, oggi verrebbero affidati alla psicoterapia o a cose di questo genere. La validità dei mezzi pedagogici sta anche proprio nell’aiutare il bambino a superare alcune fasi sia critiche sia epocali, cioè proprie della sua età, sia individuali, e lì conta la sensibilità del maestro nel riconoscere che il teatro può costituire per quel bambino un’occasione di crescita interiore.

L’altro elemento che interviene è il fatto che, trattandosi di un’operazione a più voci, di un’operazione che richiede organizzazione, che richiede la capacità di tessere, di riunire insieme tanti diversi aspetti, dai costumi al trucco, al canto, al ritmo del passo, all’organizzazione dello scenario, ecc…ecc… rappresenta in modo molto chiaro l’idea che non si può fare nulla senza la cooperazione di altri, senza il rispetto del contributo che ognuno può dare in quella situazione, compreso, al limite, il suggeritore, compreso chi fa della musica, chi canta, chi organizza i vestiti…insomma si esperimenta in piccolo che cosa vuol dire creare insieme. Diciamo che nel teatro si sperimenta (si può sperimentare) l’elemento della socialità: è un’educazione alla vita sociale. E se questo vale per i bambini, vale anche per gli adulti. E’ significativo inoltre che, in una comunità scolastica, genitori o insegnanti possano desiderare di rappresentare un’opera teatrale per i loro figli o per i loro allievi, o insieme ai loro allievi; è presente sia la funzione pedagogica, per cui il teatro è una parte integrante del piano di studi ed è un momento fondamentale lungo l’arco della scuola, sia la possibilità di fare qualche cosa da parte degli adulti per gli allievi, per i ragazzi. Quando gli adulti producono qualche cosa che poi offrono in dono ai loro bambini, anche questo rappresenta certamente un grande momento dal punto di vista della vita di quella comunità.

Ecco, più o meno questi sono i pensieri che immagino voi aveste già, sono cose che credo appartengano alla tradizione della scuola steineriana, sono abbastanza chiari credo per tutti. Forse si può ancora spendere una parola sulla differenza tra fare teatro e fare altre cose, nel senso che da un certo punto di vista un elemento del fare teatro è apprendere a muoversi in un mondo artistico che oggi sempre più è di tipo sociale; ci sono sempre più attività artistiche che sono chiamate “eventi”, “accadimenti”, in cui si ritiene che quello che conta è sì una regia, ma soprattutto il fatto che le persone riconoscano un evento, quindi non l’opera d’arte come creazione che si fa da soli e poi si presenta al pubblico perché l’ammiri, ma come qualche cosa che si produce insieme agli altri in modo che quello che con gli altri accade costituisca un evento a cui ciascuno liberamente può dare la propria interpretazione, ma che lascia tutti coinvolti nella stessa forma. Per esempio il fatto che noi siamo qui seduti, anzi voi seduti e io in piedi, costituisce in piccolo evento, un “microevento”, per di più secondo una modalità, secondo una regia che nessuno di noi ha deciso e che tutti giudichiamo in qualche modo ovvia; è ovviamente necessario che voi stiate seduti e un signore parli, se si vuole ascoltare un signore che parla. Ma questo chi lo ha detto? Perché deve essere così? Perché diamo questa forma a questo incontro? Per decidere che questo incontro abbia questa forma e non un’altra noi ci sottomettiamo ad una certa regia della vita sociale, nella vita sociale si fa così! Una conferenza, un incontro… allora ci si mette seduti, tranquilli e quell’altro si mette al tavolo, ha il bicchiere, versa……Ma questo in realtà è un evento, cioè è un teatro; in realtà noi diamo vita ad una rappresentazione che in questo caso non ha certo la ricchezza che avrebbe la rappresentazione del “Faust”; però nel piccolo costituisce un evento di rappresentazione dove ognuno (anche se in misura protetta) è coinvolto, qualcuno di più e qualcuno di meno. Questo coinvolgimento costituisce in fondo l’aspetto vitale dell’evento stesso, e naturalmente, nella misura in cui il coinvolgimento è minimo perderà in vitalità; se io per esempio questa sera, preso da un raptus artistico (che non ho), vi dicessi: “Adesso ci alziamo, ci diamo la mano, balliamo” e facciamo delle cose singolari, questo potrebbe essere giudicato come una stranezza oppure come un evento magari anche felice, ma insomma… era per far capire che cosa intendo dire. Il modo di incontrarsi risponde sempre ad una rappresentazione che in qualche maniera si giudica riuscita o non riuscita e verso la quale ognuno ha una sua sensibilità. Noi dovremmo solo divenire un po’ più coscienti di questo fatto e allora potremmo capire l’azione teatrale nella scuola prepara le persone a comprendere, a vivere con più consapevolezza la vita sociale, che appunto è una successione di eventi rappresentativi, di eventi di rappresentazione.
Si potrebbe quindi affermare che la vita sociale è teatro, per cui non è vera; mentre è un vero teatro, cioè un teatro dove le cose avvengono con verità, drammaticamente e all’interno del quale bisognerebbe imparare a porsi in maniera più consapevole con le possibilità che si hanno di agire sulla rappresentazione e anche su come farla nascere; se noi tutti fossimo più coscienti di come una rappresentazione nasce, noi saremmo più liberi dal subire passivamente i modelli che oggi ci vengono propinati al ritmo di ventiquattrore su ventiquattro attraverso i media, la televisione, attraverso i giornali, continuamente. Il messaggio implicito è: “Quello che state vedendo è il modo giusto o il modo in cui si coglie la vita”.

Anche un film poliziesco, a modo suo, rivela questo, comunica questo! Nel presentare un evento drammatico, una trama, l’abilità di colui che compie il delitto e di colui che lo scopre, viene rappresentato qualcosa in cui ci viene implicitamente ammonito: “questi sono valori, nella vita bisogna essere così!” Bisogna essere dei poliziotti bravissimi, magari appunto non necessariamente più con il cappellino alla Sherlock Holmes, oppure nella vita bisogna essere dei duri e saperlo essere nel modo dovuto. Dovunque noi ci guardiamo intorno, ci viene sempre suggerito come va rappresentata la vita; anche un manifesto, un cartellone pubblicitario in qualche maniera ci indica come bisogna essere: se bisogna portare la cravatta o se bisogna andare in giro senza cravatta; se è meglio avere una pettinatura in un modo o in un altro, qual è il paio di calze più adatto e così via… Dietro c’è sempre l’immagine della rappresentazione vincente nella vita. Comunichiamo non solo concetti, sentimenti, ma creiamo degli eventi all’interno dei quali si difende o si squalifica una rappresentazione della vita. Quanto più abbiamo potuto vivere nella produzione di eventi, tanto più dovremmo aver accresciuto una consapevolezza in questo ambito. Un individuo intelligente e raffinato che conosca molto bene le tecniche della pubblicità, e meglio le conosce, meno le subisce, scopre i limiti e le debolezze di tutto quello che viene fatto ed è capace di produrre una pubblicità molto più convincente, molto più acuta, molto più pervasiva, persuasiva. Le famose illustrazioni di Oliviero Toscani (fotografo della Benetton), per un certo tempo hanno fatto epoca proprio perché rompevano il messaggio codificato: “si deve rappresentare solo il bello, il vincente, il riuscito”; invece rappresentando “lo sconfitto, il miserabile, l’offeso” si poteva andare oltre questo limite, era forse anche presente una certa idea di svegliare le coscienze, ma di fatto si sortiva l’effetto ancora più potente, circa le mete che si dovevano raggiungere, di richiamare l’attenzione su una certa “firma”, su un certo “marchio”.

La soggezione all’idea che si debba rappresentare la vita in un certo modo, diventa meno totale, meno passiva quanto più si è conosciuto il modo con cui l’immagine, la rappresentazione, l’evento si crea. Allo stesso modo è importante avere la capacità di fare teatro, sapere che c’è una parte o un canto molto bello, che è rilevante cantare dieci volte lo stesso pezzo musicale, ma che alla fine cantato per venti/trenta volte, perde una parte della sua suggestione più intensa. Un testo la cui recitazione venga ripetuta per le prove tante volte può anche annoiare, tuttavia poi quando lo si presenta al pubblico senza sbavature diventa improvvisamente potente e suggestivo. Sapere queste cose, apprendere tutte queste cose, costituisce una sorta di vaccinazione, a mio giudizio, verso la soggezione al tipo di rappresentazione della vita che oggi viene comandato, mediato per la comunità. Questo perché il fatto che la vita sia contemporaneamente rappresentazione non è un’invenzione dei pubblicitari. In realtà che la vita sia contemporaneamente rappresentazione di se stessa, è proprio della vita, non c’è vita senza la sua rappresentazione. Non esiste la pianta se non c’è anche la forma in cui la pianta appare, non c’è pianta se non c’è l’apparizione di una foglia o di un fiore; non c’è animale se contemporaneamente non appare la superficie del suo corpo e non solo l’interno del suo corpo; l’interno dei corpi di quasi tutti i mammiferi è sostanzialmente uguale, ma l’esterno è meravigliosamente diverso. La vita si costituisce con una capacità, a partire da un elemento comune di base, di creare immagini. Vivere non è semplicemente poter mangiare e riprodursi, neppure nella pianta; in realtà vivere è già rappresentazione, cioè immagini. Naturalmente non è certo un’immagine che la pianta produce coscientemente, è un’immagine in cui essa vive priva di coscienza, che le viene donata, così come l’animale e così l’uomo; in qualche modo dove c’è vita c’è anche rappresentazione della vita. Un grande biologo degli anni del secolo scorso diceva: “Osservate come le piante al di sotto della superficie terrestre, cioè nelle radici, si assomiglino tutte; ci sono quelle a fittone, quelle fascicolate, ma non c’è confronto tra la varietà di foglie, delle parti aeree delle piante, cioè quelle esposte alla luce, rispetto alle parti esposte al buio, che stanno sotto terra; c’è una certa uniformità o scarsa variazione di forme nella parte sotterranea, in confronto all’incredibile ricchezza di forme della parte luminosa e aerea.” Questo vuol dire che il vivere non è semplicemente mangiare, riprodursi, crescere, dormire, svegliarsi; vivere è rappresentare la vita. Ognuno di noi è contemporaneamente vivente e rappresentazione del suo essere vivente e in questa rappresentazione si gioca la qualità della sua presenza nel mondo; questo fatto è ben conosciuto dal mondo femminile; le donne sanno sempre che non si è solamente, ma

si rappresenta anche quello che si è e in questa rappresentazione non vi è vanità. Questa forma di rappresentazione è parte essenziale del vivere e così si può affermare che là dove c’è vita sociale il rappresentare, il fare teatro costituisce un’educazione a comprendere questo segreto profondo e a comprendere che il controllo della capacità di rappresentazione è in realtà un dominio sulla vita. Chi è capace di rappresentare ha in mano la vita. Chi domina tutti i mezzi della rappresentazione domina la vita, per fortuna non completamente. I mezzi della rappresentazione, per quanto potenti, non supereranno mai la ricchezza di rappresentazioni possibili della vita stessa. Per quanti mezzi e macchine si usino per influenzare la rappresentazione della vita non si potrà comunque eguagliarla; è evidente che la vita è molto più ricca di ciò che appare in quei mezzi.

Le rappresentazioni del vivere non sono riducibili ad alcun strumento che le raccolga. La rappresentazione che la vita fa di sé non è data dal fatto che c’è una mostra, che ci sono dei quadri, che c’è una ripresa televisiva; noi non siamo più vivi perché in questo momento una macchina televisiva filma la nostra riunione, ma siamo vivi semplicemente perché ci siamo e ciò che noi facciamo vivere in questo momento viene comunque filmato, non dalle televisioni dei vari canali, viene filmato dal nostro stesso profondo inconscio e viene filmato, potremmo dire, dal mondo spirituale stesso, in cui tutto quello che accade lascia segno di sé. Quindi il rappresentare non risponde solo ad un’economia biologica, vivo perciò mi rappresento, perché così ho più probabilità di sopravvivere o di riprodurmi, ma vivo e mi rappresento perché attraverso la rappresentazione la mia vita rivela la sua origine e la sua destinazione. Chi è il tiglio? Chi è la quercia? Chi è il leone? Perché questi esseri si rappresentano così? Il tiglio in quel modo, la quercia in quell’altro? Chi c’è dietro a questo rappresentarsi? E dove andrà a finire questa immagine? L’aver dato vita a queste forme, che poi come sempre sapete sono effimere, come il teatro dove alla fine si spengono le luci e tutto è finito. C’è poi qualcuno, come Fellini, che si occupa del momento successivo, preso dal problema: quando le luci si spengono, quando la ribalta è buia, dove è finito tutto quello che per un momento è vissuto? La stessa domanda si può porre per la vita. Dove va a finire tutto quello che facciamo esistere? tutto questo rappresentare? Se esso ha la sua fonte nel mondo dello spirito non può che andare verso lo spirito. Il rappresentare è funzione del proseguimento della vita umana oltre il limite della sua presenza biologica, oltre il limite di essere qui ora in questo tempo, o qui ora per settant’anni. Aver dato vita ad una rappresentazione significa anche aver prodotto nel mondo degli eventi che non verranno cancellati, ma che il mondo tratterrà nel loro senso e nel loro significato, e qui potrebbe sorgere un’altra domanda: “Qual è il significato di un evento come questo? Un evento dove il motore si muove in folle, nessuno corre dei rischi, la nostra rappresentazione lascia tutti tranquilli sulle sedie, siamo in una specie di pace dopo la cena e di amichevole incontro; qual’è il senso dell’evento? Cosa verrà fotografato? Chi riprende? e da dove? Chiederei a voi se qualcuno può dire dov’è il senso nel fatto che uno parla (sì per lui avrà un certo senso!); il senso poi si moltiplica per le persone presenti, c’è una moltiplicazione delle rappresentazioni e una moltiplicazione dei significati che realizzano un’area di condivisione nella quale è possibile trovare una specie di incontro con gli altri, anche se poi ognuno rimane con se stesso. Si può pensare che il rappresentare abbia senso in relazione al fatto che non solo si miri a diventare padroni di qualche cosa, ma si miri nella rappresentazione a creare nel bello, a creare qualche cosa che sia bello, che sia piacevole, che abbia in sé un contenuto etico ed estetico. Per esempio se in questo incontro noi non fossimo minimamente animati da un desiderio di verità o da un desiderio di bene, in fondo non sapremmo cosa ci stiamo a fare qui, gli uni davanti agli altri. Che cosa ci anima se non il desiderio di raggiungere nell’occasione che è data al nostro incontro, un minimo di certezza, di comprensione in più, un minimo di orientamento dei propri pensieri in una direzione che ci appaia o illuminante o buona; un incontro in cui si cerchi l’elemento che ci accomuni nella verità, nella ricerca del bene o del bello. Questo dà un senso al fatto che non solo viviamo, ma rappresentiamo la vita, ovvero voi tutti o noi tutti vogliamo, viviamo, con l’idea che la vita che noi rappresentiamo abbia dentro di sé la tensione di essere una vita bella, di essere una vita vivibile, di essere una vita umanamente valida, sensata, buona. Questa è la tensione verso cui andiamo e quindi questo è quanto in ultima analisi assume la nostra presenza nel mondo e la porta verso il fatto che non ti puoi accontentare di esserci, ma devi continuamente preoccuparti del fatto che essendoci appari e apparendo rappresenti qualche cosa.

Se tu non sai cosa rappresenti è un peccato per te, perché è meglio saperlo, ma se tu vuoi saperlo, importa non solo saperlo perché così domini l’altro, oppure perché così ti affermi, ma perché sapendolo tu cerchi di far sì che nella rappresentazione viva ciò a cui tu dai un valore, ciò che tu ritieni abbia valore. Allora avrà un valore portare occhiali di un certo tipo, avrà valore avere o non avere sigarette nella bocca; avrà valore o non valore essersi puliti o sporchi; venire qui con cinquanta cani e tante borchie di ferro, oppure no! Tutti questi sono modi di comunicare, sono modi di decidere: “che valore do al fatto che comunque la vita mi chiama alla responsabilità dell’immagine che io sono?”
Ecco allora, se noi facciamo del teatro lavoriamo esattamente in questa direzione, verso l’aiutare le persone, i bambini (in particolare) da un lato ad immergersi in storie archetipiche, dentro le quali sono contenuti i grandi messaggi dell’umanità, i grandi insegnamenti, ovvero le grandiose rappresentazioni che del passato ha lasciato affiorare come quintessenze tanta vita di tanti uomini, come grandi modelli; l’Iliade viene almeno da 600/700 anni di storie umane, individui morti che si sono trasmessi le parole, i racconti, viene da un substrato di vita. Ecco, noi aiutiamo il bambino ad immergersi dentro grandi archetipi, che umanizzano il bambino, perché gli offrono modelli, gli offrono immagini verso le quali indirizzare la sua fragile capacità di guidare la rappresentazione di sé; e noi operiamo in senso salutare socialmente perché gli insegniamo che la formazione di queste immagini di sé non è mai un evento privato, solitario, in cui uno semplicemente oppone agli altri la sua immagine, ma deve sempre sapere che tutte le parti della sua immagine nascono da una relazione con altri, dal loro consenso o dissenso, dal loro accoglimento o dal loro rifiuto, dal loro calore o dal loro gelo; ma in qualche modo nascono nell’interazione con le altre persone, non si fa teatro da soli, si fa teatro sempre in una relazione con altri e si impara anche a sdrammatizzare quello che potrebbe essere l’esaltazione dell’egoità, l’esaltazione della potenza delle azioni. Come dicevo, si può, in teatro uccidere, si può in teatro morire e attraverso questa esperienza s’impara che cosa succede uccidendo o morendo. Questa acquisizione è estremamente salutare per l’anima. Aristotele diceva: “è una catarsi per l’anima umana, assistere al modo con cui un uomo uccide i suoi figli, o un fratello uccide il fratello”. E’una catarsi, cioè è un modo di purificare l’interiorità e riconoscere una volta di più che all’interno della ricerca dell’umanità si passa per travagli, si attraversano delle esperienze terribili nelle quali uomini si contrappongono ad altri uomini, gruppi lottano contro altri gruppi e queste lotte vanno considerate, quando avvengono senza la capacità di evitarle, come segni di inevitabile vitalità, di cui non si deve avere una così grande paura; non è affatto detto che là dove compare una grande verità, compaia immediatamente la pace.

Il Cristianesimo è apparso, nella storia dell’umanità, come portatore della pace e nella rappresentazione che voi fate del Natale abbiamo un’ immagine idilliaca, nella quale regna un elemento celestiale, di una sospensione della violenza; in qualche modo in questa Natività si celebra semplicemente la consolante idea che l’essere umano porti dentro di sé innocenza e pace. Poi, abbiamo nella stessa recitazione tutta un’altra atmosfera quando guardiamo la storia di Adamo ed Eva, tutt’altro che pacifica, o la rappresentazione dei “Tre Re” dove, invece, di nuovo a questo evento cristiano è associato in modo così drammatico l’esperienza della morte, della violenza, dell’assassinio ingiustificato di persone totalmente innocenti. “Dal punto di vista del karma che si compie attraverso ripetute vite terrene, che destino avevano avuto quei bambini e quelle madri i cui figli furono uccisi a causa di un loro coetaneo, illustre sconosciuto anche a loro? Perché? Per quale ragione queste persone sono state coinvolte in questo eccidio?” “Quale karma avranno avuto dopo quelle persone il cui destino è stato di venire uccise per un Dio che si temeva nascesse?” O meglio per un Re, allora il timore di Erode non era che nascesse un Dio, ma che nascesse un Re che gli poteva contendere la corona. Queste domande hanno ottenuto risposta? No!
Qualcuno ci pensa, pochissimi, perché siamo disabituati all’idea che i conflitti morali nell’umanità aprono delle voragini e lasciano aperto l’interrogativo; si ignora che la domanda esiste e che non abbiamo la risposta.Vivere una vita sociale nella quale esistono domande senza risposte, è sempre molto pericoloso, è come andare a
tastoni su una montagna dove da un momento all’altro ci potrebbe essere un buco. Perché, appunto, il Cristianesimo pur portatore di pace, non solo fin dall’origine, come nelle vostre recite avete mostrato, ma poi nei primi secoli sempre più, diede luogo a urti, lotte, conflitti, distruzioni e odi, da cui non si dovrebbe dedurre che allora il Cristianesimo è una religione di morte e di guerra; come facilmente o volentieri si deduce. Allora, questo voi trasmettete ai bambini, nel momento in cui ai bambini, un po’ più grandi dei piccoli, fate vedere due rappresentazioni del Natale; un Natale idilliaco, dove ogni uomo è innocente, dove ogni bambino è innocente, è puro, è bello; e un Natale tragico, dove la nascita di un bambino scatena odi, rabbia, distruzione, omicidio e infanticidio.
Quindi la domanda: Ma che vita avranno avuto quelle donne che hanno dovuto subire questo, morendo probabilmente senza sapere nemmeno bene il perché? Oggi noi avremmo una spiegazione che, per altro, non sappiamo quanto potrebbe venire accettata. Possiamo dire che qualcuno temeva che questo bambino usurpasse il trono, ma una spiegazione così non pacifica. Se poi aggiungiamo il fatto che quel bambino non era un Re qualunque, era nientemeno che il portatore del Cristo la domanda si complica di più, non diventa più semplice, diventa più grande.

“Perché per la nascita di Gesù Cristo hanno dovuto morire dei bambini? Perché?”

Quando verrà risposto a questo? Tutto quello che facciamo viene filmato, tutto quello che diciamo resta nella memoria del mondo. Gli eventi del mondo, giusti ed ingiusti, risolti o non risolti dai tribunali, risolti o non risolti dalle persone, stanno lì con le loro domande aperte e danno senso alle ricerche della stessa vita umana.