Pratica filosofica – Euritmia al liceo

di Maestra Claudia Chiodi (Libera Scuola Rudolf Steiner, Via Pini, Milano)

 

La maturazione della nostra visione del mondo è un perpetuo processo di movimento […] un pensiero vivo, l’angolo visuale che sappiamo nostro e in cui siamo presenti con la nostra viva vita.

Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo

 

Secondo Gerd Achenbach, fondatore della cosiddetta consulenza filosofica, lo stesso vantaggio che la filosofia ha nei confronti delle altre scienze si può altresì trasformare in una condizione sfavorevole. Poter pensare senza doversi mettere alla prova con la realtà è difatti ciò che la rende davvero del tutto libera ma anche motivo di scollamento col reale.

Cita anche Novalis quando dice “filosofare è deflemmatizzare – vivificare”, prendendolo come motto della sua Philosophische Praxis che si propone di riportare la filosofia nella vita reale, un po’ come Marc Sautet, professore di filosofia al Liceo e poi all’Università, che in Francia ha creato i café-philo e ha pubblicato un testo sulle prime esperienze di “filosofia pratica”, tradotto in italiano con il titolo Socrate al Caffé.

Mi si presenta l’occasione di fare pratica filosofica in classe XI, quando i ragazzi stanno affrontando lo studio di Platone attraverso la lettura di alcuni dei suoi dialoghi. Propongo al mio collega di filosofia un approfondimento sul “Cratilo”, dialogo sul linguaggio, per creare un ponte con l’insegnamento dell’Euritmia in una interdisciplinarietà che è propria di questa materia. Nel corso del piano di studi, infatti, essa è sempre a sostegno del lavoro quotidiano del maestro di classe e dello sviluppo sia fisico che interiore del fanciullo, ma nel terzo settennio la sua forza di potersi sposare a qualunque altra disciplina teorica viene seriamente accolta dal ragazzo che anela a trovare connessioni col mondo, per crescere e scoprire il fondamento, la verità delle cose.

Platone fa discutere Socrate, Ermogene e Cratilo sulla “correttezza dei nomi” ovvero sull’esprimibilità della verità attraverso lo strumento linguistico. Nella fattispecie la relazione che sussiste tra la parola e quello che essa designa non può che affascinare un euritmista, dedito sin dall’inizio dei suoi studi alla ricerca del gesto che incarni e riveli la bellezza e la verità di ogni parola che legge o che esegue.

L’uomo moderno sente i limiti imposti dalle parole, sempre più vuote e scollegate dalla loro primigenia sacralità, tanto più chi è sensibile come lo è un poeta ha la consapevolezza negativa che non ci sono più messaggi sicuri o formule magiche (Abracadabra!) ma solo

“qualche storta sillaba e secca come un ramo[1]”.

È Rudolf Steiner a riportarci alle intenzioni più profonde del genio della lingua grazie all’Euritmia. “Abbiamo così la possibilità, proprio nella rappresentazione euritmicamente plastica e gestuale, di sentire profondamente il significato, l’essere che risiede nelle parole.[2]

E ancora “la parola in fondo ha già in sé un carattere duplice: da un lato vuole chiudere in sé l’imitazione esteriore, dall’altro però vuole anche porre nell’ordinamento complessivo del mondo quello che esprime ….. nella configurazione della parola non risiede solo il singolo significato ma anche il rapporto di un processo, di una cosa che viene definita con le parole, nei confronti del tutto o almeno di un tutto superiore.[3]

Tornando nell’antica Grecia, l’arte del parlare è una disciplina preziosa di cui si serve il retore nell’oratoria giudiziaria o quando insegna l’eloquenza. Nelle sue intenzioni, però, la parola può anche venire usata, nel senso più deteriore del termine, per influenzare in modo utilitaristico le opinioni altrui. Di questo tratta Platone in un’altra sua opera, il “Gorgia”, preoccupato dagli effetti negativi che la retorica può assumere quando diviene manipolazione, se non è subordinata ad un criterio stabile ed esterno al linguaggio.

Il Gorgia storico è stato infatti uno dei maggiori sofisti, termine in uso oggi per definire un “ragionatore sottile e cavilloso”.

Ecco quindi che i tre contendenti dibattono nel “Cratilo” per individuare un principio di valutazione e di disciplina degli impieghi del linguaggio.

Nel presentare la mia proposta di lavoro agli allievi di classe XI enucleo le tre differenti tesi sottolineando al contempo che noi, adesso, abbiamo un’arma in più per confutarne una o sostenere l’altra: possiamo servirci dell’Euritmia.

Ermogene è convinto dell’estraneità del significante (nome) rispetto al referente (cosa); sono il consenso e l’uso a garantire la correttezza di un nome.

“Non posso convincermi che ci sia una qualche altra correttezza del nome se non la convenzione e l’accordo. A me pare infatti che se qualcuno pone un nome a un oggetto, questo sia il nome corretto. …. infatti non per natura già predisposto per ciascun oggetto è il nome, bensì per legge e per uso di coloro che così usano e chiamano.[4]

Per Cratilo invece la teoria è quella naturalistica dell’intrinsecità, esiste per lui un’assoluta identità tra nome e cosa nominata tanto che non sarebbe possibile nemmeno dire il falso perchè la correttezza del nome è per natura e, se si dice, si dice il vero oppure non si dice affatto[5].

Dove arriverà Socrate con la confutazione delle due tesi precedenti? Si può ragionevolmente

affermare che nella sua trattazione vi sia un primo accenno alla teoria delle idee che Platone comincerà da allora a elaborare. La vera conoscenza non risiede nel nome ma ben oltre: “Se dunque da un lato c’è modo di imparare quanto più possibile le cose tramite i nomi, ma dall’altro c’è anche modo di farlo per mezzo di loro stesse, quale dei due sarà l’apprendimento migliore e più chiaro? Apprendere dall’immagine l’adeguatezza dell’immagine stessa e la verità della quale è immagine, oppure apprendere dalla verità la verità stessa e la sua immagine, se sia stata realizzata in modo adeguato?[6]

Se il legislatore, ovvero colui che ha posto in principio i nomi alle cose, li ha tratti dal mondo delle idee, noi potremmo fare il viaggio inverso e ritornarvi?

Questa è la domanda finale che pongo ai ragazzi e per farli rispondere li divido in tre squadre, ognuna delle quali avrebbe dovuto sostenere il pensiero del filosofo scelto.

A 17 anni non si può che fare il tifo per Ermogene, che da solo ha raccolto la metà della classe, mentre gli altri studenti si sono divisi equamente tra Cratilo e Socrate/Platone.

Per dimostrare la propria tesi avrebbero dovuto usare lo strumento dell’Euritmia, linguaggio visibile. La maggioranza dei ragazzi (la squadra di Ermogene) parte quindi dall’assunto che il nome e la cosa non hanno alcuna relazione, che la convenzione e a volte addirittura il caso hanno il sopravvento nella scelta e nell’utilizzo dei singoli termini.

Decidono quindi di prendere una parola e di tradurla in tanti diversi idiomi per mostrare con tutta evidenza che un oggetto, se è lo stesso, non può avere nomi diversi solo in virtù di una variegata appartenenza geografica.

Interessante…anche Platone si interroga a riguardo e Rudolf Steiner ne parla diffusamente nel corso di Euritmia della parola[7], anche portando degli esempi: “Se diciamo che un tempo esisteva una lingua originaria uguale per tutti, da dove provengono le diverse lingue?” e, attraverso l’analisi della parola “Kopf/testa”, arriva a dire “E quindi ogni lingua ha il temperamento e il carattere del suo genio.”

I ragazzi scelgono la parola “tavolo/Tisch/table/tableaux/taula” e scrivono la lista alla lavagna, già soddisfatti perché non trovano apparenti relazioni tra i termini.

Nel frattempo provano a “scriverli” anche in euritmia uno dopo l’altro e si stupiscono perché da ogni loro tentativo sorge davvero un’immagine del tavolo, così che quello italiano risulta elegante con lo stelo snello (L) e il piano rotondo (O), mentre quello tedesco viene pulito per bene grazie al suo finale in SCH e il francese offre generoso le sue leccornie (L+EAUX).

Allora io li incalzo ancora, chiedendo se non sia importante che inizino tutti con la T e, al loro diniego, prendo in mano un gessetto e ne disegno una grande, allungando volutamente il trattino orizzontale rispetto a quello verticale e, girandomi verso di loro con un sorriso candido, dico: “Oh, ma questo è un tavolo!”

A questo punto qualcuno scova un ricordo che appariva sepolto nella memoria: il maestro in prima classe, dieci anni prima, ha raccontato loro una lunga storia e ogni episodio finiva con un disegno alla lavagna e una letterina nuova da imparare a scrivere. Che emozione!

(Nel pomeriggio successivo alla mia lezione diversi ragazzi hanno cercato il loro quaderno di prima, nel box del papà o in uno scatolone in cantina).

Ma la squadra che vuole dimostrare che il linguaggio è solo un mezzo convenzionale non si arrende e decide di scartare i sostantivi concreti perchè già legati a priori ad un’immagine e di puntare di conseguenza su quelli astratti.

Cercano idee, scelgono nomi e li provano davanti a me, commentando tra di loro ogni gesto ad alta voce. Ricordo ad esempio la parola “morte”: “la M sembra il passaggio tra una dimensione e l’altra, la R trasforma e la E è proprio come vengono poste sul petto le braccia del defunto…Prof non è giusto, lei ci ha fregati! E’ impossibile da dimostrare!”

Nel frattempo le altre squadre hanno scelto “amore” e lo fanno, dopo che ognuno ha provato le lettere per sé, muovendo tutto il gruppo in un cerchio unico in modo che non sia solo un sentimento personale ma più universale.

Abbiamo passato tre lezioni ad approfondire il rapporto tra linguaggio e significato, tra fonemi ed elementi, in lingue e culture diverse, facendo euritmia e discutendo tra noi.

Alla fine dell’anno ogni allievo ha avuto sulla sua pagella il disegno a colori della figura in euritmia[8] dell’iniziale del proprio nome.

L’anno successivo, in XII, una delle ragazze del gruppo di Ermogene ha imperniato il suo Jahresarbeit[9] sull’interrogativo se la lingua influenzi la nostra percezione del mondo, il nostro atteggiamento verso di esso e di conseguenza la nostra personalità.

Oltre ad aver approfondito l’argomento attraverso studi di antropologia culturale ed etnolinguistica, ha deciso di introdurre il lavoro con una dimostrazione di Euritmia.

Ha studiato la parola “anima” in diverse lingue, anche di ceppo molto distante, e l’ha mostrata all’uditorio. Attraverso i gesti si poteva chiaramente sperimentare il rapporto di quel popolo con la propria parte spirituale, anche in virtù di differenti prospettive religiose.

Le avevo a tal proposito consigliato di scegliere gli esempi tenendo conto che proprio queste polarità potevano essere meglio colte dall’occhio di chi avrebbe guardato la sua dimostrazione pratica e debbo dire che così è stato.

Nei ringraziamenti finali la ragazza ha spiegato che l’Euritmia ha dato inizio al suo lavoro, portandola ad alcune intuizioni davvero interessanti e facendole capire profondamente alcune cose.

Molto bene, perché quando le parole non bastarono più a Rudolf Steiner per presentare alcuni contenuti della Scienza dello spirito, si affidò proprio all’Euritmia per entrare nei cuori degli uomini. E sono certa che questo continuerà ad avvenire.

 

 

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[1]    Eugenio Montale – Non chiederci la parola, da “Ossi di seppia” 1925.

[2]   Rudolf Steiner – Euritmia linguaggio visibile (OO 279), IV Conferenza.

[3]   Ivi, VIII Conferenza.

[4]   Platone – Cratilo, frammenti 384c e 384d.

[5]   Ivi, frammento 429d.

[6]   Ivi, frammento 439b.

[7]   Euritmia linguaggio visibile, conferenze II e IV.

[8]   Si tratta di rappresentazioni figurative di vocali, consonanti e gesti dell’anima, tagliate dal compensato e colorate. Furono create da Rudolf Steiner nel 1922 in collaborazione con la scultrice Edith Maryon ed in seguito dipinte, seguendo le sue indicazioni e i suoi schizzi originali, in tre colori che rappresentano movimento, sentimento e carattere.

[9]   Il lavoro dell’anno, tesina su un soggetto liberamente scelto e sviluppato dall’allievo, presentato in teatro dinanzi alla comunità di insegnanti e genitori.

 

Articolo apparso su Arte dell’educazione – Rivista semestrale dell’Associazione degli Insegnanti delle Scuole Rudolf Steiner di lingua italiana fondata nel 1995.